O MIA, O DI NESSUNO: IL SESSO INUTILE

Il dibattito sui pregiudizi culturali sembra appartenere ad un’epoca lontana. Era il 1961 quando Oriana Fallaci pubblicava Il sesso inutile, ed illustrava la condizione delle donne in diverse culture (prevalentemente mediorientali ed orientali). Psicologicamente e giuridicamente subordinate ad un mondo in cui ogni sostanza apparteneva agli uomini.
Un mondo di uomini deboli, incatenati a una schiavitù che essi stessi alimentano e di cui non sanno liberarsi”.
Il sesso inutile, Oriana Fallaci, 1961 - Bur
Una schiavitù, quella di alcune donne, che vede nei numerosi episodi di femminicidio solamente un triste epilogo, anticipati, tuttavia, da una serie di atti e manifestazioni di violenza che sembrano quasi, tacitamente, accettati. Obbligare ad indossare un Burqa è espressione di violenza. E a nulla servono i tentativi di convincimento che quel lenzuolo rappresenta la libera scelta di una donna che riserva la propria bellezza all’ uomo. No, con il burqa una donna è un corpo. Un corpo che cammina con un lenzuolo addosso. Una violenza che mina all’identità. Ad esempio. E poi i casi violenza verbale cui le donne sono quasi rassegnate, gli epiteti, gli insulti, le ingiurie, i messaggi oltraggiosi sui social, le frasi volgari: sono tutte instillazioni di una violenza che si insinua nel midollo di una società che ha il dovere debellarla. Tuttavia persino la violenza, progredisce. Diventa sempre più impunita ed impunibile. L’anonimato dietro cui si celano i profili fake su Facebook, ad esempio, o su Twitter, non fanno che nutrire una fagocitata fame di violenza. Sintomo di quella frustrazione che riguarda non solo gli uomini, ma altresì le donne che talvolta riversano le proprie insoddisfazioni nei confronti di altre donne. Ma tralasciando il tema dell’odio misogino generalizzato (già affrontato, peraltro, qui), bisogna concentrarsi su ciò che rappresenta l’evoluzione della natura violenta da parte degli uomini e che vede nelle donne un bersaglio preciso. Gli episodi di femminicidio sono, appunto, quella punta di un iceberg che vede nello stillicidio di episodi violenti, il chiaro intento di sottomissione della donna al volere dell’uomo e al suo desiderio di controllo. L’uomo abbandonato dalla propria donna non solo vede minato il proprio ruolo, ma assiste inerme al vacillare di quell’idea di dominio su cui, negli anni, ha costruito le proprie certezze. La certezza che la donna è a suo uso e consumo. L’abominio per il quale la donna è oggetto del suo desiderio, così come della sua volontà. Un’ideale marcio e primitivo che, tuttavia, emerge chiaro in molte realtà sociali, non così distanti da casa nostra. L’esempio del Burqa è volutamente provocatorio: non si vuole denigrare un culto, rispettabilissimo, quale quello musulmano, quanto piuttosto si vuole far comprendere come alcune realtà poggiano le proprie basi su di una natura involutiva e non progressista ed innovatrice. Ed è corretto: delle donne non si deve parlare come di una specie a se stante, ma di fatto, il numero delle donne oggetto di ripetute violenze e che vedono nella loro uccisione quel triste epilogo di cui si diceva sopra, è esasperatamente elevato e non lo si può relegare ad un fenomeno casuale o momentaneo. Tant’è che lo stesso Consiglio d’Europa in tema di prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, riconosce la violenza stessa come una violazione dei diritti umani e come atto di discriminazione.
da Repubblica, qui
Ancora una volta, femminicidio. Il caso di Manuela Bailo è solo l’ultimo caso balzato alla cronaca: spaventoso e triste, e che ricorda, per certi versi, il caso di Pamela Mastropietro (vedi l’articolo Vilipendio e occultamento di cadavere, una morte iniqua, qui). E lo ricorda per gli episodi di occultamento del cadavere delle vittime, onde impedirne il ritrovamento. Ed ecco che concorrono, nelle ipotesi di specie, due fattispecie delittuose distinte: l’omicidio e l’occultamento. E si noti che affinché possa configurarsi delitto di occultamento non è necessario trovarsi di fronte ad un cadavere, ricorrendo tale ipotesi altresì laddove la condotta sia volta a realizzare l’occultamento di un corpo che, cadavere, non lo è ancora: perciò “lo spostamento in un luogo nascosto del corpo di una persona che sta per morire al fine di occultarne il cadavere costituisce il delitto previsto dall’art. 412 c.p., anche se la morte avviene dopo l’occultamento” (v. sent. Cass. V, 20.9.1993).
da Ansa, qui
Di tali femminicidi, occorre, innanzitutto, parlarne:
abbassare il livello di attenzione nei confronti degli episodi di violenza equivale a censurare e contribuisce a considerare le donne in maniera estremamente riduttiva. 
Inoltre, relegare la violenza ad episodi connessi alla "sola" misoginia, in ultima analisi, significa negare il modo in cui molti uomini vivono il rapporto con le donne. Emerge chiara, dunque, una particolare assenza di empatia: ne deriva l’incapacità di immedesimarsi non solo nel sentimento di dolore provato da un soggetto ma soprattutto nell’incapacità di comprendere il male che ad esso, si cagiona. E i segnali partono da singoli episodi che fungono un po’ da campanello d’allarme: dalle parole allo svilimento fisico e psichico, alle percosse, seppur lievi, sempre e comunque ingiustificabili. Si tende, poi, a giungere ad una riconciliazione anche laddove è ulteriormente dannosa; che sfocia, poi, in un contesto di impunità intrecciato nella spirale della non denuncia. Occorre intervenire a priori, e cioè, prima che ciò avvenga: innanzitutto, tramite un intervento intellettuale: l’Italia, purtroppo, vive ancora in un clima culturale che tende a stratificare la violenza e, talvolta, a sminuirla. Spesso le stesse famiglie coprono gli episodi di violenza subiti dalle donne. Ed ecco che subentra un terribile gioco di ricatti, di sensi di colpa, che tendono ancor di più a collocare la figura della donna in un contesto tuttora arretrato e culturalmente debole. Un primo passo è stato proprio quello di definire l’omicidio di una donna ad opera dell’uomo, il femminicidio, appunto, quale neologismo dal forte impatto evocativo e culturale. Non è una questione di semantica: uomo e donna, se vittime di omicidio, hanno ovviamente pari dignità di vittima. Tuttavia, avendo, il femminicidio, come detto, delle modalità comportamentali che lo anticipano, è opportuno monitorare e prevenire alcuni atteggiamenti dell’uomo che potrebbero sfociare, appunto, nell’uccisione della donna. È bene ricordare che oltre il 70% degli autori di femminicidio è un soggetto interno alla famiglia stessa o comunque un soggetto legato, affettivamente o sentimentalmente, alla vittima delle violenze stesse. Femminicidio è dunque un concetto puramente criminologico: deriva dal termine inglese Femicide, coniato dall’attivista e criminologa Diana E. H. Russell. Indica la peculiarità di un omicidio di genere che ha ad oggetto, appunto, la donna in quanto tale. Fu proprio l’autorevole criminologa a parlare per prima della differente modalità di esecuzione dell’omicidio dell’uomo rispetto all’omicidio della donna: se l’uomo è ucciso, soprattutto, ad opera di uomini appartenenti alla criminalità (più o meno organizzata), le donne sono vittime di omicidio nell’ambito di relazioni sentimentali, attuali o passate, in cui l’uomo diventa, spesso, l’autore preannunciato. Incatenato - come scrisse la Fallaci - a quella schiavitù che essi stessi alimentano e di cui non sanno liberarsi.
Diana E. H. Russell, Criminologa
"Femicide is the intentional killing of females (women or girls) because they are females"

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