BREAK THE SILENCE
Quando la
misoginia è donna
Asia Argento
Una
teoria psicologica fa derivare il comportamento aggressivo direttamente dalla frustrazione, da intendersi come ogni
impedimento, ogni ostacolo che frena il raggiungimento di un obiettivo (John
Dollard, aggressività e frustrazione 1939).
E
se aggressiva è la condotta di chi
abusa sessualmente di una persona, altrettanto aggressiva potrà essere la
condotta di chi accusa le vittime di
aver millantato una violenza sessuale o uno stupro, appunto, senza conoscere
concretamente i fatti e senza avere la benché minima cognizione in
materia.
È
un giudizio che si basa su un pregiudizio. E quando il pregiudizio (e la
conseguente aggressività, sia pur verbale) è esercitata da una donna nei
confronti di un’altra donna, forse è ancor più sintomo di una frustrazione
endemica.
Se
un’attrice già ricca e famosa dichiara di aver subito una violenza sessuale
diversi anni fa, sull’onda di un incendio mediatico internazionale nel cui rogo
brucia un importante produttore, allora se l’è cercata. Ha ceduto alla violenza
“per avere la parte”.
Sicuramente nel mondo dello spettacolo, così come in qualsiasi altro ambiente,
ci sono donne (e talvolta uomini) capaci di utilizzare il proprio corpo, la
propria sensualità, il proprio corpo per ottenere qualcosa.
Si
cede al proprio dirigente, per avanzare nella carriera. Si frequenta un "vecchio"
ricco e potente, per assorbirne ricchezza e potere e viverne di riflesso. Si usa
il proprio corpo come merce di scambio. Nulla quaestio. Succede e succederà
sempre.
Diversa
è la violenza. Sessuale per giunta.
Nei
primi esempi la volontà, il libero arbitrio, rappresentano il discrimen fondamentale per delimitare le
ipotesi di violenza sessuale.
La
violenza sessuale è tale quando non è voluta dalla vittima. Perché di vittime
si tratta.
Ora,
se un’attrice, all’inizio o nell’apice della carriera, viene “invitata” dal più potente ed influente
produttore ad avere rapporti sessuali con lui, subentra, probabilmente un gioco
psicologico di soggezione mentale, una sorta di metus, un timore, un terribile gioco psicologico di paure che può
lasciare la vittima talmente sgomenta da farla credere apparentemente e
tacitamente consenziente.
Subire
una violenza sicuramente non è semplice e come già discusso in passato (qui)
subentra uno strano meccanismo per cui non sempre è semplice parlarne o
denunciare.
Non
denunciare una violenza non significa non averla subita. Anzi. È bene rompere
il silenzio e parlarne. È un gesto di coraggio. Cosa importa quanti anni sono
passati dallo stupro. Se questo è avvenuto ha sicuramente cagionato problemi
gravissimi, spesso irreparabili, disagi e sofferenze inenarrabili.
Sicuramente
“denunciare” mette al riparo dall’orco quanti si avvicinano a lui in futuro. Ma
il tutto si insinua in un meccanismo psicologico così profondo ed emotivo che,
onestamente, non è così semplice da individuare e capire.
Eppure
con semplicità, il caso di Asia Argento, diventa oggetto di dibattito mediatico
televisivo, sui social network e, ovviamente, sulla stampa.
E,
nel caso di Asia Argento e delle tante altre attrici coinvolte nella vicenda
del produttore newyorchese Harvey Weinstein stupisce come l’attacco (spesso da
parte di molte donne) sfoci nell’affermare:“se
l’è cercata!”.
Ma dire che “se l’è cercata”
allora significa abbracciare la tesi che la violenza ci sia stata. E di fronte
alla violenza, nessuno può dire “se l’è cercata”.
Con quale coraggio esporsi a favore di una violenza?
Di sicuro è naturale e legittimo porsi delle domande. Cercare di
capire quale può essere il limite tra violenza
e non-violenza.
Ma per questo ci sono fior di giuristi, di filosofi, psicologi
e psicanalisti. E nonostante tutto spesso è difficile definirne i confini.
Il
nostro ordinamento giuridico, ad esempio, definisce violenza sessuale l’atto di chi
con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe qualcuno a
compiere o subire atti sessuali e punendo anche chi induce taluno a subire o compiere
atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della
persona offesa al momento del fatto (art.
609-bis del codice penale).
Cedere
alle “avances sessuali” del produttore
più potente del mondo in un momento in cui credi che tutto il tuo futuro e la
tua carriera dipenda da lui, equivale a subire violenza sessuale?
Equivale
a “indurre taluno a compiere o subire
atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o
psichica della persona offesa”?
La
norma si riferisce ad una condotta perpetrata nei confronti di chi, al momento
del fatto, è affetta da un disturbo
mentale seppur lieve che la pone in condizione di subire l’abuso senza
riuscire a capire del tutto se chi hai di fronte sta abusando di te o meno.
Pur
rifiutando una condizione clinica di inferiorità
psichica, si parla, comunque, di casi di soggetti con lievi ritardi, in cui
l’abuso
si concretizza nell’approfittare delle condizioni di menomazione della persona
offesa, al fine di poter accedere nella sfera della sua sessualità, la quale
viene ridotta ad essere lo strumento per realizzare e soddisfare la sessualità
altrui.
Dunque,
a mio avviso, tolte le ipotesi di violenza
fisica volta a costringere un soggetto a compiere o subire atti sessuali, tolte
le ipotesi di minaccia, tolte le
ipotesi di abuso dell’inferiorità fisica
o dell’ inferiorità psichica per
ricavarne vantaggi sessuali, considerate attentamente e disattese le ipotesi
penalmente rilevanti di violenza sessuale, in tutti gli altri casi non può
dirsi violenza sessuale.
Se
un produttore non ha usato violenza
fisica e non ha abusato dell’infermità mentale delle giovani attrici e queste
hanno paciscientemente accettato di avere rapporti sessuali (a volte anche
ripetuti) con la certezza di averne un tornaconto oltremodo vantaggioso, allora,
parlare di violenza diventa oltremodo artificioso.
Si
tratta (e mi rendo conto di quanto possa essere difficile e forse impossibile)
di determinare e stabilire proprio questo flebile confine tra ciò che è stato e
ciò che è stato percepito.
E
se di violenza si tratta, ecco che allora torna il problema della frustrazione: se la vittima è una donna
ricca, famosa e all’inizio (o all’apice) della propria carriera, allora il coro
unanime delle altre donne (soprattutto) intona quel “se l’è cercata!” quasi fosse la giusta compensazione per le fortune
che la vita le ha riservato o il fatto di essere, come nel caso di Asia, la
figlia di Dario Argento, regista dalla duratura fama internazionale.
Diversa
però è l’ipotesi di chi, per avere successo, per raggiungere uno status e per
ottenere qualcosa di materiale, utilizza il proprio corpo e lo propone a chi
può soddisfare quel desiderio. Rientra nel diritto alla sessualità.
Si
è liberissimi di farlo, e di accettare le conseguenze morali delle proprie
scelte. Anche se la moralità di chi è disposto a far di tutto per ottenere ciò
che vuole, mercificando il proprio corpo, non credo sia poi così intatta.
Ma
questa è tutta un’altra storia.
Ad
Asia Argento un duplice merito: se ha subito violenza (e solo lei può saperlo, ma non c'è motivo di pensare che non sia così) va
apprezzato il grande coraggio con il quale, anche a distanza di molti anni, ha
denunciato il sopruso subito, invitando a denunciare e a rompere quel silenzio
dietro al quale si nascondono troppo spesso, violentatori seriali.
Ma questa storia ci insegna, altresì, che la misoginia, l'aggressività e la frustrazione sono spesso sentimenti gratuiti ed ingiustificati che attaccano (ed offendono) le donne vittime di violenza e che provengono, troppo spesso, da altre donne. Tristemente.
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