Intimate Partner Violence (IPV): violenza interpersonale nei confronti delle donne
‘Susanna e i Vecchioni’ (1610) di Artemisia Gentileschi
La Direzione Centrale Polizia Criminale – Servizio Analisi Criminale ha reso noti i dati relativi agli omicidi volontari commessi nel periodo 1 gennaio – 3 luglio 2022.
Il documento, redatto a cura del Ministero
dell’Interno, ha l’obiettivo di “offrire
una panoramica degli omicidi volontari consumati e, nello specifico, di quelli con vittime donne, nel
triennio 2019 - 2021 e (appunto) nel periodo 1 gennaio – 3 luglio 2022, confrontato con l’analogo periodo 2021”.
Al 03 luglio 2022 sono stati registrati 144 omicidi, con 61 vittime donne, di cui 53 uccise in ambito familiare/affettivo;
di queste, 33 hanno trovato la morte
per mano del partner/ex partner.
Contribuisce ad attirare particolare attenzione il
fatto che tutte le vittime di
omicidio volontario commesso dal partner o ex partner sono tutte di genere
femminile.
Sebbene le statistiche evidenziano una lieve flessione
al ribasso, rispetto all’anno precedente, di certo non si può reputare il
numero di femminicidi commessi per mano di un partner o ex partner, marginale o
basso.
La percentuale è preoccupante, soprattutto a fronte di
un movente di carattere affettivo e psicologico.
Infatti, ogni relazione interpersonale evoca, di per
sé, un importante e naturale coinvolgimento affettivo oltre che psicologico.
Ed è logico affermare che un rapporto sano e
pienamente soddisfacente permette di vivere in maniera serena e consente agli
individui di raggiungere un benessere che può ripercuotersi, positivamente,
nella vita sociale, lavorativa ed affettiva in genere.
Al contrario, un rapporto sentimentale patologico ed
incline al litigio conduce quasi sicuramente ad una vita sociale sofferta, con
ripercussioni sul piano sociale, emotivo, lavorativo e psicologico.
Ed è proprio dall’intensità della predetta
inclinazione al litigio che può derivare quella che in letteratura viene
definita Intimate Partner Violence
(IPV) (Medicine, Short, Alpert, &
Harris, 2006; Heyman, Slep, & Foran, 2015).
Il litigio, pur se futile, banale, può scatenare
comportamenti di aggressività, di violenza (psicologica prima ancora che
fisica), i cui risvolti violenti possono sfociare, come nei casi analizzati nel
report sugli omicidi di genere, nell’uccisione della partner.
L’importanza di utilizzare il termine femminicidio è fondamentale e deve
essere chiara a tutti. Non si tratta di demagogia né di mera affezione alla semantica.
Così come coniato nel 1992 da Diana Russell
l’espressione femminicidio si
riferisce all’omicidio di una donna per
il fatto di essere donna.
Viene logico pensare se, le definizioni possono
aiutare a prevenire fenomeni discriminatori, di violenza personale o
psicologica e, ancora, omicidi.
Probabilmente no.
Tuttavia, forse, è importante dare un segnale di
attenzione, di interesse e rispetto a chi è vittima di violenza per il fatto di
appartenere ad un genus specifico.
Probabilmente è anche opportuno discernere il fenomeno
giuridico-penale, da quello criminologico a quello sociale: un Codice, un
apparato normativo, non è forse il luogo deputato ad arginare fenomeni sociali.
Diventerebbe, infatti, uno strumento di Governo e,
pertanto, non idoneo ad esercitare qual si voglia funzione legislativa,
esperibile autonomamente.
Di fatto, la nostra società risulta indubbiamente e, forse,
irrimediabilmente ancorata ad un sistema patriarcale così radicato che lo
strumento legislativo assurge ad elemento chiarificatore.
I comportamenti delittuosi perpetrati nei confronti
delle donne e che sfociano nell’uccisione di quest’ultima assumono rilevanza
sempre maggiore, soprattutto alla luce dei fatti di cronaca degli ultimi anni.
Impossibile parlare sempre di raptus omicida, proprio perché, spesso, il vissuto delle vittime di
femminicidio è testimonianza diretta di violenze manifestate in diverso modo
che anticipano e, talvolta, rendono prevedibile o quanto meno altamente preoccupante,
un futuro comportamento criminale.
Il femminicidio è sovente, infatti, l’epilogo di una
serie di comportamenti precedenti: si pensi allo stalking, alle ingiurie, alla violenza verbale nonché fisica.
Spesso vi sono denunce che non hanno avuto il giusto seguito;
altre volte l’omessa denuncia da parte della vittima stessa, quasi a voler
dimenticare o minimizzare alcuni episodi di violenza subiti, rende impunite le
condotte violente.
Una violenza consumata al fine di ripristinare un
arcaico potere sulla donna, che alimenta quella voglia di controllo tipica
dell’uomo violento e che annienta totalmente l’autonomia fisica (e psicologica)
della donna.
Oriana Fallaci parlava di “un mondo di uomini deboli, incatenati a una schiavitù che essi stessi
alimentano e di cui non sanno liberarsi”.
L’esperienza patriarcale che vede il dominio dell’uomo
sulla donna, in parte combattuto con la cultura e con l’accesso indistinto all’istruzione, ha permesso un’evoluzione sociale anche e, soprattutto, in quei
contesti sociali ancorati a valori tradizionali da considerarsi, oggi, primitivi.
Tuttavia, viene da chiedersi se le riflessioni che
poneva il Filosofo tedesco Edmund
Husserl, negli anni Trenta, possano trovare pregio nell’attualità del
contesto scientifico e sociale: si chiedeva, appunto, Husserl: “Si può seriamente parlare di una crisi delle
scienze, nonostante i loro continui successi?”.
E se lo chiedeva negli anni 30, nell’ambito di un contesto
storico a cavallo tra le guerre mondiali e, soprattutto, quale testimone delle
persecuzioni raziali, in quanto ebreo tedesco, vittima delle politiche
persecutorie hitleriane.
Ma cos’è la crisi
(di senso) di cui parla Husserl? E com’è possibile trasporla nell’attualità di
un contesto sociale talmente evoluto da potersi considerare, oggi, in crisi?
Nel 1936 venne pubblicata la prima parte dell’opera
del filosofo tedesco che, rimasta incompiuta, risulta essere forse il suo
testamento culturale e spirituale.
L’intento dell’opera era quello di tentare di
comprendere la crisi delle scienze,
intesa come crisi della ragione.
Probabilmente la si può identificare con l’incapacità dell’uso della ragione, una sorta di crisi della cultura e, quindi, della mancanza di capacità critiche e dubitative.
È l’incapacità di porsi delle
domande sulle conseguenze di taluni comportamenti o, altresì, di taluni
pensieri, soprattutto quando essi sono ideologici.
Quella tracciata da Husserl rappresentava la
cosiddetta crisi di senso da intendersi come crisi della ragione che, come
sottolineava Michela Marzano in un interessante intervento (qui) è quella che ha portato
progressivamente all’emergere dei totalitarismi.
La crisi della cultura rappresenta il più grande
ostacolo all’evoluzione sociale ed è ciò su cui si basano, appunto, tutti i
moderni regimi dittatoriali.
Spesso si danno per assodate delle verità che vengono
narrate e per le quali non ci si impegna per approfondirne la veridicità: si smette,
di fatto, di dubitare e, in tal modo, di argomentare criticamente le proprie
scelte.
Un esempio in tale senso è dato dalle ripetute accuse
di reato contro un isolato gruppo etnico o sociale al solo scopo di alimentare
nei cittadini una recondita paura: enfatizzare reati commessi dagli
extracomunitari come fossero prerogativa tipica degli stessi.
Ed ecco che l’incapacità di dubitare e, dunque, di ragionare, non consente di approfondire la veridicità dell’informazione e, al contrario, alimenta un passivo recepimento di nozioni che, di frequente, non poggiano su nessuna base scientifica, statistica e sociale.
Ed è in un simile contesto sociale, pervaso da un epocale tracollo culturale, che le parole e le definizioni assumono un’importanza ancor più significativa, poiché pregne di valori da divulgare e proteggere.
=> sul femminicidio, qui
=> sulla violenza sulle donne, qui
=> sull'overkilling e i fenomeni predatori, qui
=> sull'odio misogino generalizzato, qui
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