MALTRATTAMENTI CONTRO FAMILIARI E CONVIVENTI
L'art.
572 c.p. punisce chiunque maltratta una persona della famiglia o comunque
convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per
ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per
l'esercizio di una professione o di un'arte. Tale
delitto viene pacificamente qualificato come un reato abituale a condotta
plurima, in quanto per la sua consumazione è richiesta una reiterazione nel
tempo di condotte omogenee. Nel
Codice Rocco il reato viene collocato tra i delitti contro la famiglia, con
alcune novità relative all’ampliamento dei soggetti passivi, tra i quali
vengono annoverati (rispetto al Codice Zanardelli) anche le persone sottoposte
all’autorità dell’agente o allo stesso affidate per ragioni di cura, vigilanza,
educazione, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte. Nell’ottobre
del 2012, il Legislatore è intervenuto sull’art. 572 c.p., modificando la
norma, con l’intenzione perseguire più duramente delle condotte, che
soprattutto alla luce dei fatti di cronaca, destano un notevole allarme
sociale, considerato il contesto all’interno del quale si generano e la
posizione di debolezza della vittima.La
novella è avvenuta ad opera della legge 1 ottobre 2012, n. 172, legge che ha ratificato la Convenzione del
Consiglio d'Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e
l'abuso sessuale del 25 ottobre 2007 (c.d. Convenzione di Lanzarote).In
particolare, l'art. 4, comma 1, lett. d), della legge de qua ha determinato le
seguenti modificazioni:
- Ha cambiato la rubrica dell'art. 572 c.p., che da reato di “Maltrattamenti in famiglia e verso i fanciulli” e divenuto reato di "Maltrattamenti contro familiari e conviventi";
- Ha aggiunto i conviventi nel gruppo dei soggetti passivi del reato;
- Ha inasprito le pene
L’art.
572 c.p. statuisce testualmente che il reato di maltrattamenti può essere
commesso da “chiunque”. Tuttavia,
l’indeterminatezza dell’agente sussiste solo nell’ipotesi in cui il reato venga
commesso nei confronti di un infraquattordicenne, mentre, negli altri casi, il
soggetto attivo deve necessariamente essere una persona qualificata, ossia una
persona legata alla vittima da un vincolo familiare o da un rapporto basato
sull’autorità della prima nei riguardi della seconda o alla quale la stessa
vittima sia stata affidata per una
delle ragioni indicate dalla norma. In
merito, poi, ai soggetti passivi del reato
di maltrattamenti erano sorti
particolari questioni interpretative in relazione al significato da attribuire
alla locuzione “persone della famiglia”. Ai
fini della sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia non era
necessario che i soggetti fossero legati da un vincolo di parentela o affinità,
ma era fondamentale che tra di esse vi fosse un legame di assistenza e\o protezione allo stato attuale, anche in
assenza di un rapporto di convivenza o di stabile coabitazione.
Il
reato in questione si reputa consumato solamente mediante una reiterazione di
atti: in tal caso a favore della condotta tipica come caratterizzata da una pluralità
di atti interviene la stessa rubrica dell’art. 572 c.p., che, utilizzando il
sostantivo plurale “maltrattamenti”
non sembra lasciare dubbi al riguardo. I
maltrattamenti possono realizzarsi con forme e modalità sempre differenti, data
altresì l’impossibilità di contenere in
una sola espressione legislativa le differenti ipotesi che i maltrattamenti
assumono nella pratica quotidiana. Ad
ogni buon conto, è assodato che i maltrattamenti devono essere tra loro connessi
in modo da poter essere inseriti in una consueta e più ampia condotta, tale da indurre
un regime di vita oppressivo, talvolta vessatorio, e insostenibile da parte
delle vittime. Ai
fini dell’integrazione del reato in questione, è fondamentale la coscienza e la volontà dell’agente “di sottoporre i soggetti passivi ad una
serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale”.
Ma quali sono i comportamenti che, nella loro
ripetizione si trasformano in una
condotta "patologica" e rilevante dal punto di vista giuridico?
Ad
esempio, un atteggiamento privativo rispetto alla cura dei bambini: laddove
per cura non si intende il mero "cambio del pannolino" ma anche l’affetto,
le attenzioni materiali o relazionali. Ma anche non vestire il bambino
adeguatamente, infliggere sofferenze psicologiche e fisiche, trascurare o
ignorare le sue necessità mediche (quali la somministrazione di farmaci);
eludere o trascurare le esigenze di istruzione e scolarizzazione bambino; lasciare
un bambino privo di adeguata sorveglianza e senza le necessarie attenzioni;
pretendere che il bambino conformi il suo atteggiamento alla realizzazione di
desideri dell'adulto, senza considerare le reali inclinazioni ed aspirazioni. Anche
influenzare negativamente i comportamenti del bambino onde trarne un vantaggio
personale, anche al fine di influenzare le percezioni e le valutazioni del
bambino, è certamente abuso esporlo a liti o violenze familiari ancorché la
fattispecie sia prevista come autonoma (la cosi detta violenza assistita dove
il bambino è spettatore passivo nei confronti dell'aggressione perpetrata da un
genitore nei confronti dell'altro – in tal senso, Tribunale di Piacenza 23 ottobre 2008). Elemento
significativamente correlato al delitto di violenza sui minori è il rapporto consapevole
(o talvolta inconscio) di strumentalizzazione del bambino da parte del mondo
adulto, reso possibile dalla superiorità fisica o psichica dell'adulto, dal
quale la vita del bambino dipende. Inoltre,
non è necessario un vero e proprio contatto fisico, tra carnefice e vittima,
per l'integrazione del delitto di violenza sessuale su minore: è quanto emerge
dalla sentenza 22 luglio 2013, n. 31290 della Quarta Sezione Penale della Corte
di Cassazione: nello specifico, si riconosceva il compimento di condotte idonee
e dirette in modo non equivoco a compiere atti sessuali da parte di un uomo con
alcuni minori, consistenti nell'avvicinare i minori e richiedere agli stessi il
compimento di atti sessuali. I
tecnici (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili) che collaborano come
CTU nei Tribunali vengono spesso chiamati a valutare le competenze genitoriali
delle parti in causa per l’affidamento dei figli minori, soprattutto nelle
cause di separazione e divorzio.
La
cosiddetta “valutazione della
genitorialità” è un’articolata attività di accertamento, che deve tener
conto di differenti metri di misura, operante in un’area multidisciplinare tesa
a valorizza i contributi della psicologia clinica e dello sviluppo, della
neuropsichiatria infantile, della psicologia della famiglia, della psicologia
sociale e giuridica e della psichiatria forense. Per
capacità genitoriale si intende l’attitudine del genitore di comprendere e appagare
le esigenze materiali, i bisogni affettivi od emotivi di cui ogni bambino necessita
in ogni fase della sua evoluzione. In
caso di accertato pericolo o elevato rischio dispone attraverso apposito
decreto un allontanamento provvisorio del minore dalla famiglia, con
collocamento presso una comunità di pronto intervento, da solo o unitamente alla
madre, secondo la situazione. Da
questo momento i servizi territoriali sono investiti del mandato di protezione
del minore e di verifica del processo di intervento. Nei
loro interventi dovranno tenere conto delle esigenze cliniche del bambino. Infatti
il bambino vittima di violenza all’interno della propria famiglia avrà bisogno
di aiuti qualificati, di supporto quotidiano, perché non si senta solo ed isolato
e superi passività e vergogna, presenti soprattutto nell’abuso sessuale.
La
Magistratura prescrive ai servizi la valutazione diagnostica delle capacità
genitoriali, formulando una prognosi motivata di recuperabilità. E’
questa una fase assai delicata: valutare significa individuare quali margini di
recupero esistono per il ripristino di una capacità genitoriale
sufficientemente adeguata, sia attraverso il sostegno sia attraverso il controllo
(v. art. della Dott.ssa Maria Angela
Valenti, assistente sociale, in www.medisoc.it). Nel
caso in cui un Giudice debba necessariamente decidere con quali modalità si
debba procedere all’affidamento dei figli (e a quale genitore), potrà nominare
un C.T.U. (consulente tecnico d’ufficio – art. 191 c.p.c.) al quale, una volta richiesto
giuramento, viene interrogato sui motivi oggetto d’indagine. Un sostegno,
questo, richiesto dal Giudice al suo consulente onde comprendere al meglio la realtà
familiare e dunque volto a prendere la decisione migliore, nell’interesse del
minore.
Joan Miró
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