13 REASON WHY & BLUE WHALE

Il suicidio è un tema che suscita particolare tensione. Quella che ho definito condotta lesiva definitiva (sulla condotta autodistruttiva definitiva clicca quinon può essere la sola chiave per reagire al dolore, per superare i dispiaceri. E soprattutto non può non esserci un grido che precede tale gesto, un precedente tentativo, od una richiesta di aiuto.

PARTE PRIMA
Ho da poco terminato di vedere la serie di Netflix 13  (13 reasons why) e, poco interessato all’argomento, onestamente, non ho letto il libro (di   Jay Asher edito da Mondadori, 2008) da cui è tratta la serie. Ma essa è stata da sola sufficiente a pormi adeguati spunti di riflessione.
Il tema, già  trattato (qui), è quello della morte. Una morta terribile, quella derivante dal suicidio. Soprattutto in un caso, come quello narrato da 13 ove la protagonista rende colpevoli della propria morte le persone che con lei avevano relazioni quotidiane e alle cui condotte, a suo sentire, riconduce le cause principali del proprio suicidio.

Hanna Baker è un’adolescente con una vita apparentemente normale ma che, frequentando un ambiente frivolo e pieno di apparenze travisate, si trova coinvolta in continue situazioni che espongono negativamente (e duramente) la sua reputazione.
Hanna passa per una ragazza facile, i cui comportamenti vengono ripetutamente manipolati: viene seguita, spiata, fotografata, denigrata e umiliata pubblicamente.
A tratti faccio fatica a capire se il tema della serie sia il disagio psicologico di una ragazza evidentemente problematica oppure il bullismo praticato su di essa che la spingerà, poi, a suicidarsi, a farla finita perché incapace di affrontare da sola situazioni di disagio insostenibili per un qualunque adolescente.
Hanna, dopo aver registrato 13 cassette sulle quale incide le ragioni del proprio gesto, si suiciderà, tagliandosi le vene nella vasca da bagno. Ai superstiti rimane un amaro senso di colpa, come da intenzione propria della ragazza.

PARTE SECONDA
Quasi simultaneamente alla proiezione di tale serie televisiva, l’attenzione mediatica è stata rivolta al cosiddetto Blue Whale, il “gioco” della morte che porta delle persone (tendenzialmente adolescenti) a seguire delle istruzioni pilotate da un “tutore” che illustra le regole e le prove da superare per arrivare, in definitiva, a compiere l’ultimo passo di questo terribile gioco, il suicidio. Pare che in Russia, dov’è nato questo gioco, le vittime siano state molte. Troppe.
E qui, allora, si parla di istigazione al suicidio tramite un meccanismo psicologico terribilmente efficace nei confronti, ovviamente, di soggetti emotivamente e psicologicamente fragili.
Le riflessioni posso essere molte. Forse è naturale pensare e credere che chi cagiona la propria morte, suicidandosi, è il solo responsabile delle proprie azioni.
Ma tolte le ipotesi di istigazione al suicidio, si può essere (involontariamente) complici di un gesto estremo quale il suicidio?Bandite, cioè, tutte quelle situazioni in cui, come nel caso Blue Whale, vi è un terzo/curatore che fornisce le istruzioni per giungere alla morte, il suicidio, può derivare dal comportamento omissivo altrui?
Nel saggio "IL SUICIDIO E LA RESPONSABILITA'"  gli autorevoli Paolo Cendon e Luigi Gaudino fanno notare come molto spesso ci si sofferma sullo stupore, sullo sgomento, sull’incredulità di famigliari e conoscenti, o ancora sui giudizi sommariamente espressi da un audience spesso estraneo ai fatti ma che, superficialmente, esprime un’opinione.
E, quasi mai, si giunge ad ipotizzare o identificare, un responsabile (diverso dall’autore del suicidio stesso).
In particolare essi focalizzano l’attenzione sul rapporto tra suicidio e istituzione nel quale esso si realizza o semplicemente tra suicida e istituzioni (inteso come figura o status professionale).
Ed allora, si parlerà del suicido del paziente dello psichiatra, suicidio in casa di cura, suicidio in carcere, suicidio dello studente.
In tutti questi casi viene analizzato il ruolo di una delle suddette istituzioni e, soprattutto, ci si interroga se esse abbiano ottemperato a tutti gli obblighi volti ad evitare l’evento autolesivo definitivo.
… “Sono questi i luoghi ove più facile è riconoscere l’esistenza di precisi doveri di protezione, gravanti sui « guardiani » ufficiali della struttura: basti pensare al soggetto depresso, che si veda ricoverato in un reparto psichiatrico, oppure al giovane tossicodipendente in stato di arresto, o ancora allo studente che manifesti serie difficoltà di adattamento” … (Cendon-Gaudino, Suicidio e La Responsabilità).
Come si evince, appunto, dalla lettura, vi sono soggetti che hanno un dovere di tutelare le persone rispetto ai rischi suicidari che ad esempio, nel caso di indagine psichiatrica, la malattia potrebbe far insorgere.
La scuola (attraverso i propri insegnanti) è sicuramente uno dei luoghi istituzionali dediti all’interpretazione ed anche al sostegno dei ragazzi con evidenti intenti suicidari.
problema della prevenzione del suicidio giovanile è stato, nel corso degli anni, oggetto di una vasta congerie di studi ed esperienze operative, il che ha permesso di accumulare non solo un ampio bagaglio di conoscenze, ma anche collaudate tecniche di intervento. E basta poco per accorgersi come sia la scuola il luogo elettivo in cui tali strumenti possono applicarsi …”
E poi:
“ … gli episodi della vita scolastica rivestono il valore di elemento scatenante rispetto a una condizione soggettiva che si presenta, di per sé, deteriorata—a causa di difficoltà che trovano  in altri momenti dell’esistenza la loro reale origine…”
(Cendon-Gaudino, Suicidio e La Responsabilità).

Spesso, appunto, gli insuccessi scolastici, lo scherno da parte dei compagni e talvolta di alcuni insegnanti, si insinuano in un contesto già problematico e già segnato dalla complessità delle vicende adolescenziali; in generale, dunque, la capacità di cogliere gli aspetti problematici di un alunno, che vanno oltre i limiti di una naturale apatia adolescenziale, fanno si che scaturisca, in capo all’istituzione scolastica, un obbligo di attivazione, infatti
malgrado l’insegnante non sia tenuto a possedere le conoscenze di un medico o di uno psicologo, la posizione stessa che egli occupa gli consente di avvertire per primo—spesso meglio di chiunque—i sintomi del pericolo”  (Cendon-Gaudino).
Dibattuto e storicamente controverso il ruolo dell’insegnante in un tale contesto socio assistenziale, ma doveroso e, soprattutto, necessario. Ruolo delicato proprio perché delicata è la natura dei soggetti con i quali, quotidianamente, instaurano un confronto.
Insomma, le chiacchiere a sfondo sessuale hanno sempre condito la quotidianità di molti adolescenti. Certo è che gli strumenti attuali, la rete in particolare, permettono una radicale, immediata ed incontrollabile diffusione che non la limita più a poche persone ma ad una rete fitta di persone e, in alcuni casi, ad una intera popolazione (scolastica, cittadina e, in taluni casi di un'intera Nazione). Tutto questo si insinua in un meccanismo sicuramente crudele e oltremodo meschino, ma lontano comunque dalle ipotesi di omicidio colposo e comunque dubbie di istigazione al suicidio (per le quali è opportuno, appunto, indagare approfonditamente).


PARTE TERZA
IL SUICIDIO IN CARCERE
All’interno del carcere il suicidio rappresenta un problema tutt’altro che marginale.
I momenti di ingresso nella struttura carceraria e quelli immediatamente precedenti alla scarcerazione rappresentano le fasi di maggiore rischio per quanto riguarda gli atti autodistruttivi e le intenzioni suicida.
Sono stati molti negli anni gli interventi legislativi e le pronunce giudiziarie in merito. E in relazione al suicidio in carcere, più che mai, ci si domanda sulla natura della responsabilità in capo alla struttura ed al personale.
È palese che, nel nostro ordinamento, il diritto alla vita e alla salute occupino un ruolo fondamentale all’interno di una gerarchia di valori (e sono sicuramente sovraordinati rispetto alle esigenze di ordine pubblico e, più in generali di giustizia).

ed. Ansa, 21.06.2017

Prato voleva provare ad uccidere. Ci era riuscito ed insieme al suo complice aveva cagionato la morte di un ragazzo di 23 anni, Luca Varani. Ma è riuscito, tuttavia, a sperimentare questo folle desiderio anche su sé stesso.
Tralasciando gli aspetti morali laddove, dato che si parla di omicidi, di morti talmente inique da far tremar la lingua a chiunque ne parli, anche per studio o per scienza, ciò su cui occorre soffermarsi sta, in questo contesto, nell’evento morte e, in specie, nella morte di un soggetto sottoposto a pena detentiva e, dunque, sotto evidente e costante controllo di un’autorità amministrativa.
È vero che il suicida era un assassino. Un uomo che ha ucciso in maniera cruenta un ragazzo innocente. Ma tralasciando, altresì, quel pensiero lontano dai dettami costituzionali che vedono nella vendetta la soluzione migliore, io credo che qui più che mai mors omnia solvit, (la morte “scioglie” tutto) e, soprattutto, nel senso che essa sottrae dalla possibilità di assicurare l’autore di un reato, il colpevole, alla pena e, dunque di sottrarlo di fatto alla giustizia.
Giustizia che per essere tale non può e non deve essere una mera ripicca: dovrà essere, semmai, retributiva, volta cioè ad equilibrare le ingiustizie. Una giustizia distante da un’apocrifa illusione di vendetta.
*** *** ***
NB: 13 (reasons why) è tratto dall'omonimo romanzo di Jay Asher edito da Mondadori:

Commenti

Post popolari in questo blog

BREAK THE SILENCE

Tatuaggi, criminologia e "Mostra Tattoo - l'arte sulla pelle" - Torino, 9 novembre 2018 a 3 marzo 2019

INVESTIGATORE PRIVATO E INDAGINI DIFENSIVE: registrazioni e microspie