L'istigazione all'anoressia e l'agevolazione dei disturbi del comportamento alimentare: equivalgono all' istigazione al suicidio?
Il delitto di istigazione al suicidio.
Per il
nostro codice penale, all’articolo 580, ne risponde il soggetto (“chiunque”,
trattandosi di un c.d. reato comune di danno e di evento) che, istigando,
determini o ne rafforzi (azione dolosa) il proposito suicida; e che il suicidio
(evento) si verifichi o che dal tentativo derivino lesioni gravi o gravissime.
Se nessuno dei due eventi si realizza, il fatto non è punibile.
Si tratta
di un delitto contro la vita e l’incolumità individuale, espresso in tutela del
“bene vita” generalmente considerato, pragmatizzandosi, nel caso specifico,
nella violazione di tale bene con specifiche condotte.
Non
occupandosi, la criminologia ed il diritto in generale, di quelle azioni che
escono dalla sfera intima dell’individuo, il suicidio in sé non può
considerarsi un reato, e non costituisce neppure un fatto altrimenti
espressamente vietato dalla legge.
Sono
queste, appunto, le realtà sociali ove è possibile individuare un particolare
obbligo di protezione da parte dei custodi ufficiali, quali il personale
medico, le guardie carcerarie ed infine, gli insegnanti e gli educatori.
Né quello omissivo — occorre aggiungere — appare l’unico profilo di responsabilità immaginabile. Non di rado ciò che accade in questi ambiti assume la consistenza di vera e propria causa dell’impulso suicida: così per il carcerato, fatto oggetto di violenze e soprusi; per il soldato di leva, vittima di prevaricazioni e ingiustizie; per il lavoratore, sottoposto a insopportabili rischi e stress.
La vita
umana, come bene giuridico tutelato, rientra nel novero dei diritti
indisponibili anche per il titolare, cui corrisponde l’interesse dello Stato a
garantirne e tutelarne la sicurezza,
salvaguardandola da fatti partecipativi al suicidio; di qui, la volontà
(ed il dovere) di sanzionare penalmente qualsivoglia partecipazione estranea
all’azione suicida: non potendo logicamente punire la persona che si è
suicidata, perché defunta, si provvede ad una tutela ex post, andando a punire
chi, materialmente o psicologicamente ha contribuito alla realizzazione del
suicidio.
E se
appare maggiormente chiara la partecipazione attiva dell’autore del reato
all’altrui suicidio, e di quel male che volontariamente determina ed induce a
creare al prossimo, occorre tuttavia soffermarsi sul concetto di partecipazione
psicologica nel delitto in esame e di come tale condotta possa essere
determinante nell’esecuzione, poi, del suicidio.
Si
realizzerà, infatti, una partecipazione psichica, sempre punita ai sensi
dell’art. 580, allorché sarà determinato un soggetto al suicidio o rafforzando
in esso il suo preesistente proposito suicida. Laddove per determinazione
s’intenderà, quindi, il far sorgere nella vittima il proposito che prima non
esisteva (di togliersi la vita) e per rafforzamento, il conferire maggiore
vigore ed intensità al proposito suicida già sorto nella vittima: in tale
ultima ipotesi occorrerà sia la dimostrazione dell’obiettivo contributo
all’azione altrui di suicidio, sia la prefigurazione dell’evento come
dipendente dalla propria condotta, non potendosi ritenere la prova del dolo
assorbita in quella della casualità.
Caso
emblematico e oggetto di dibattito dottrinale e giurisprudenziale è quello
relativo all’istigazione all’anoressia.
In un
contesto di interdipendenza delle reciproche influenze si insinua la condotta
di chi nutre il proprio ego e la propria parafilia inducendo taluno
all’anoressia, e quindi alla riduzione del cibo, fino a determinarne il rifiuto
completo dell’alimentazione: in tali ipotesi, privare altri del cibo nutre il
proprio (perverso) piacere.
Il male,
in tale contesto, corrisponde alla volontà di controllo di un terzo soggetto
che già vive una forma psicotica di deformazione della realtà.
Ed ecco
che se da un lato accresce quel forte desiderio del malessere altrui,
dall’altro diminuisce e quasi viene annientata la sottomissione alla propria
volontà.
Per quanto
non esista un’ipotesi criminosa legata all’induzione all’anoressia, tuttavia,
potranno individuarsi meccanismi che portano ad ipotizzare altre fattispecie
delittuose e che vedono, nelle lesioni prima, e nell’istigazione al suicidio
poi, l’esito emblematico di questo terribile meccanismo patologico.
Sovente i
disturbi del comportamento alimentare, quali l’anoressia, appunto, determinano
sintomi depressivi che sfociano con la morte o con pensieri suicidari. Colui il
quale istiga all’anoressia, dunque, istiga anche al suicidio e per tale motivo
potrebbe essere ritenuto colpevole per tale ipotesi delittuosa.
Nel corso
degli anni, e su questo è opportuna un’attenta riflessione, il problema dei
disturbi del comportamento alimentare (e delle morti ad esso connesse) è stato
attribuito come colpa determinante dapprima alle madri (dunque alla famiglia),
poi alla moda e alle regole e ai modelli che propinava, per giungere
all’attuale colpevolizzazione dei social network.
È
sicuramente complicato individuare un solo responsabile quando il malessere che
porta alla morte, passando per la mortificazione fisica si connette ad una
serie di motivazioni personali, familiari, sociali.
In
conclusione, trattandosi di un delitto a forma libera – la fattispecie di
istigazione al suicidio può essere compiuta con qualsiasi condotta idonea al
raggiungimento dello scopo, proprio a sottolineare come l’oggetto della tutela,
il bene della vita, goda di una tutela assoluta a garanzia di
quell’indisponibilità cui esso ne costituisce emblematicamente, diritto
primario.
Proprio in
virtù di tale elastica estensione, il disposto di cui all’art. 580 c.p.
potrebbe prestarsi a realtà esageratamente allargate, con il rischio di
coinvolgere, altresì, condotte irrilevanti giuridicamente, come ad esempio la
mera conoscenza del proposito istigante.
Ecco che
allora, il vero problema risulta essere quello di determinare quanto una
condotta possa essere agevolatrice dell’evento suicidio.
Sono, ad
esempio, agevolatrici, le condotte che presentano un collegamento diretto con
l’evento morte per suicidio: si pensi al fornire un’arma a chi ha manifestato
l’intenzione di porre fine alla propria vita.
Tra le
ipotesi di condotte estensive rispetto a quella di cui all’art. 580 c.p.,
particolarmente dibattuta è quella relative all’ Istigazione a pratiche
alimentari idonee a provocare l'anoressia, la bulimia o altri disturbi del
comportamento alimentare.
Se da un
lato è vero che coloro nei quali si riscontrano disturbi del comportamento
alimentale, tendenzialmente, hanno già sviluppato altre patologie
psicologiche, psicotiche, ossessive,
talvolta con inclinazioni alla depressione; dall’altro lato la condotta di chi
istiga a pratiche che conducono a squilibri alimentari, potrebbe considerarsi
come agevolativa e, quindi, idonea a rafforzare un proposito autolesivo, dal
quale può derivare, nel caso dell’anoressia, ad esempio, la morte.
D'altronde,
chi istiga al disturbo alimentare non fa altro che colpire un sintomo, il
sintomo di una malattia già insita e radicata nella mente delle vittime
esattamente come chi che fornisce un’arma a colui che ha palesato,
manifestamente, l’intenzione di suicidarsi.
Il
cacciatore di anoressiche
Un caso
particolarmente emblematico per le ipotesi di istigazione all’anoressia è
quello del c.d. cacciatore di anoressiche.
Marco
Mariolini, antiquario con l’ossessione per le ragazze magre, quasi
scheletriche. Autore del romanzo autobiografico “Il cacciatore di anoressiche”
del 1997, egli stesso descrive la propria come una condizione dettata da una
vera e propria perversione che lo spinge a desiderare e ad accompagnarsi a
donne particolarmente magre, quasi scheletriche, a favorire la loro patologia,
inducendole ad una magrezza eccessiva, spingendole alla denutrizione ai limiti
della sopravvivenza, con la
consapevolezza, dallo stesso ammessa (nonché desiderata) che il suo contributo
avrebbe portato le donne, alla morte.
Abbandonato
dalla moglie, arrivata ai limiti di un’anoressia patologica e particolarmente
grave, cerca di assecondare il suo desiderio di accompagnarsi a donne
magrissime, reclutando le sue “vittime” tramite annunci pubblicate su riviste
di incontri.
Conosciuta
la ventinovenne Monica Calò, ne diventa dapprima compagno, poi, carnefice.
Magrissima e con disturbi del comportamento alimentare già in atto, veniva
ripetutamente sottoposta a vessazioni ed umiliazioni da Mariolini, il quale, di
lei, bramava l’immagine spigolosa e scheletrica e, soprattutto, desiderava
fosse totalmente sotto il suo completo e costante controllo psicologico e
fisico.
Giunta
quasi al limite della sopportazione, Monica Calò tentò di liberarsi del proprio
carnefice, aggredendolo nel sonno a colpi di martello, dopo un’ulteriore
violenta e traumatica lite.
Condannata
per tentato omicidio e lesioni la stessa viene condannata e costretta a
scontare la pena degli arresti domiciliari presso la propria abitazione.
Nel
frattempo, nel 1997 Mariolini pubblica il proprio romanzo autobiografico, che
se da un lato appare come la cronaca di un delitto annunciato dall’altro
attribuisce carattere olografo ad un testamento criminale.
Sarà
proprio durante la conferenza stampa che lo stesso affermerà di voler essere
aiutato e fermato perché la sua riconosciuta parafilia lo spingerà un giorno,
ad uccidere qualcuno.
Il 14
luglio 1998 Mariolini incontra Monica a Verbania, col pretesto di parlarle e,
dopo un animato tentativo di riconciliarsi con lei, la uccise inferendole 22
coltellate.
Nell’autore
sono nettamente presenti due paradigmi omicidiari: il disturbo
ossessivo/narcisistico e l’atteggiamento di overkilling con il quale inveisce
ripetutamente sul corpo della vittima.
L’ossessione,
dunque, di ricercare donne con corpi magrissimi a completo soddisfacimento dei
propri desideri sessuali, dunque l’ossessione del controllo della volontà
altrui e l’ideale di plasmare l’oggetto del suo desiderio, una donna
anoressica, a suo assoluto ideale ossessivo immaginario.
L’ossessione
di plagiarne la mente, attraverso il corpo e viceversa. Un disturbo, il suo,
non del tutto capace di scemare la sua capacità di intendere e di volere,
considerato dalla Corte che ha dovuto esprimersi in merito all’omicidio di
Monica Calò perfettamente imputabile.
La
sentenza si fonda su di una CTU che
scongiura una sua (anche parziale) incapacità di intendere e di volere, e che
sottolinea piuttosto quanto le sue
perversioni sessuali non abbiano inciso sulle sue capacità decisionali in
merito all’evento morte. Quest’ultimo, infatti, è stato dallo stesso voluto e
premeditato.
Il
risentimento verso la vittima - che ormai respingeva ogni suo malsano ed
esasperato intento – accresce sempre più sino a diventare l’unico pensiero che
affligge la sua mente e che guida la sua condotta verso l’intento omicidiario.
L’altro
aspetto sta proprio nell’overkilling (ossia l’esercitare un forte accanimento
verso la propria vittima), rappresentata da quelle 22 coltellate: una violenza
esasperata sul corpo, ormai privo di vita già dopo alcune coltellate, non
funzionale al compimento dell’azione omicidiaria. È l’espressione del possesso
estremo di quel corpo vissuto come oggetto fino alla morte.
Avendo
confessato immediatamente il delitto, optando per il rito abbreviato,
riconosciuto imputabile, Marco Mariolini viene condannato a 30 anni di
reclusione dalla Corte di Assise di Novara, e sconta la sua pena presso il
carcere di Pavia.
Ovviamente,
Mariolini non è colpevole del solo reato
di istigazione al suicidio, per la semplice ragione che egli stesso ha ucciso a
coltellate l’ex compagna che, quasi sicuramente, sarebbe comunque morta a causa
della denutrizione cui era stata istigata.
Pertanto,
la condotta – di istigazione – abbraccia solamente la fase iniziale dell’iter
omicidiario ed è particolarmente utile per descrivere e comprendere quel male
che accresce in modo esponenziale ed evolve fino a raggiungere un desiderio,
estremo, di morte della vittima.
Un male,
quello espresso dall’autore di tale delitto, particolarmente subdolo e
intenzionalmente diretto a conquistare l’affetto di una persona, già
particolarmente fragile a causa di una malattia, per poi spingersi a gestirne, in modo malevolo e
criminale, la psiche.
Ed ecco
l’espressione di una violenza subdola e malvagia che cresce in maniera
proporzionale con l’involvere di ogni sentimento di tutela, di protezione e di
conservazione di sé, palesati dalle vittime.
Dunque, il
soggetto attivo del delitto di istigazione al suicidio, può essere, come si
evince dal testo dell’art. 580 c.p., chiunque: ciò non esclude, poi, che
possano coesistere più soggetti attivi, che attuano condotte differenti.
Così come
non è da escludersi che i soggetti passivi – pur dovendo permanere il proposito
reale e concreto di uccidersi e non una simulazione di suicidio - possano
essere persone indeterminate nel numero .
Si pensi
al caso delle numerose ragazze (spesso giovanissime) che gestiscono e curano
blog il cui contenuto rappresenta un vero e proprio manuale devoto
all’anoressia (o, in altri casi, alla bulimia) onde voler indurre l’utenza a
coltivare minuziosamente vari disturbi del comportamento alimentare.
I blog
c.d. pro-Ana (cioè pro-anoressia), ad esempio, incoraggiano le ragazze
(soprattutto) a limitare il più possibile il cibo fino a giungere a una
magrezza malata ed esasperata che, quasi con certezza, provoca lesioni fisiche
gravissime che conducevano poi alla morte delle ragazze, spesso giovanissime.
In tali
casi è molto flebile determinare il confine per la configurazione dei delitti
di lesioni gravissime procurate a terzi oltre al tentativo configurato di
istigazione al suicidio.
Ancor più
tangibile, in queste ipotesi, quel concetto di male inteso come forza
condivisa che vuole coinvolgere
indistintamente più persone e che vede crescere in maniera esponenziale la
propria essenza.
Quasi a
nutrire una fagocitata esigenza di cagionare dolore ad altri, per alleviare le
proprie sofferenze, od anche per coinvolgere altri in una sofferenza che non
rimanga più isolata ed esclusiva.
In tal
senso quel male diventa lo strumento quasi vendicativo, retributivo e
banalizzato, perché adattato ad un pensiero conformato al proprio distorto
volere.
Questo concorso di energie dirette a produrre un danno morale e sociale, qual è il suicidio, costituisce appunto quel rapporto tra persone che determina l’intervento preventivo-repressivo del diritto contro il terzo estraneo, dal quale esclusivamente proviene l’elemento che fa uscire il fatto individuale dalla sfera intima dei suicidi.
I disturbi del comportamento alimentare nel DSM- V
Il DSM-V individua una sezione dedicata ai Disturbi della nutrizione e dell'alimentazione, tra i quali compare, appunto, l'anoressia nervosa.
Tale patologia è caratterizzata dalla costante ricerca della magrezza, dal terrore - patologico - dell'obesità, da una distorta immagine corporea e da una drastica riduzione degli introiti alimentari che, di fatto, portano ad una significativa perdita di peso.
La diagnosi è esclusivamente clinica.
La maggior parte dei trattamenti prevede alcune forme di terapia psicologica e comportamentale. Il coinvolgimento della famiglia è fondamentale per la cura dei pazienti più giovani.
Vengono
riconosciuti due tipi di anoressia nervosa:
tipo
restrittivo: i pazienti limitano
l'assunzione di cibo, ma solitamente non mettono in atto abbuffate o condotte
di eliminazione; alcuni pazienti fanno attività fisica in maniera eccessiva;
tipo con
abbuffate/condotte di eliminazione: questi
pazienti si abbuffano regolarmente per poi provocarsi il vomito e/o abusare di
lassativi, diuretici o clisteri.
Le
abbuffate vengono definite come consumo di quantità di cibo più grandi rispetto
a quanto la maggior parte delle persone assumerebbe nello stesso arco di tempo
e in circostanze simili, con una perdita di controllo, ossia, con l'incapacità
di resistere o di smettere di mangiare (per approfondimenti, è possibile consultare le traduzione del DSM V, qui).
L'anoressia
nervosa può essere lieve e transitoria oppure grave e persistente.
Anche se
sottopeso, la maggior parte dei pazienti è preoccupata di pesare troppo o che
aree specifiche del corpo (p. es., cosce, glutei) siano troppo grasse.
Persistono in sforzi per perdere peso, nonostante le rassicurazioni e gli
avvertimenti da parte di amici e familiari che sono magri o addirittura
significativamente sottopeso, e vedono qualsiasi aumento di peso come un
fallimento inaccettabile di autocontrollo. La preoccupazione e l'ansia per
l'incremento di peso aumentano anche se sopravviene il deperimento.
Anoressia
è un termine improprio, perché l'appetito spesso si conserva nonostante i
pazienti arrivino a diventare significativamente cachettici. I pazienti sono
preoccupati dal cibo:
Possono
studiare diete e calorie.
Possono
accumulare, nascondere e gettare via il cibo.
Possono
collezionare ricette.
Possono
preparare pasti elaborati per altre persone.
I pazienti
spesso esagerano i loro introiti alimentari e nascondono i comportamenti, come
l'autoinduzione del vomito. Le abbuffate e le condotte di eliminazione sono
presenti nel 30-50% dei pazienti. Gli altri semplicemente riducono l'apporto
alimentare.
Molti
pazienti con anoressia nervosa inoltre fanno attività fisica in maniera
eccessiva per tenere sotto controllo il peso. Anche i pazienti cachettici
tendono a rimanere molto attivi (anche conducendo intensi programmi di attività
fisica).
Vengono
riportati di frequente meteorismo, dolori addominali e stipsi. La maggior parte
delle donne con anoressia nervosa smette di avere cicli mestruali. I pazienti
di solito perdono interesse nel sesso. Di frequente compare depressione.
Reperti fisici comuni comprendono bradicardia, bassa pressione arteriosa, ipotermia, capelli lanuginosi (capelli morbidi, sottili solitamente presenti solo nei neonati) o lieve irsutismo ed edema. Il grasso corporeo è ridotto in modo molto significativo. I pazienti che vomitano spesso possono presentare lo smalto dentale consumato, un ingrandimento indolore delle ghiandole salivari, e/o l'esofago infiammato (per approfondimenti, è possibile consultare le traduzione del DSM V, qui).
Trattamento dell'anoressia nervosa
Integrazione
nutrizionale
Psicoterapia
(p. es., terapia cognitivo-comportamentale)
Per i
bambini e gli adolescenti, un trattamento a base familiare
A volte
antipsicotici di seconda generazione
Il trattamento dell'anoressia nervosa può richiedere un ricovero salva-vita a breve termine per recuperare il peso corporeo. Se la perdita di peso è stata grave o rapida, o se il peso è sceso al di sotto del 75% circa rispetto al peso raccomandato, diviene decisivo un rapido ripristino del peso e deve essere presa in considerazione l'ospedalizzazione. In caso di dubbio, i pazienti vanno comunque ricoverati.
I
trattamenti ambulatoriali possono comprendere vari gradi di sostegno e di
supervisione e comunemente coinvolgere un team di professionisti.
La
supplementazione nutrizionale è spesso utilizzata in associazione a una terapia
comportamentale che ha chiari obiettivi di ripristino del peso. L'integrazione
nutrizionale inizia fornendo all'incirca dalle 30 alle 40 kcal/kg/die; può
produrre un incremento di peso fino a 1,5 kg/settimana nel corso della degenza
ospedaliera e fino a 0,5 kg/settimana durante la terapia ambulatoriale. Le
alimentazioni orali usando cibi solidi sono da preferire; molti piani per il
restauro del peso usano anche supplementi liquidi. Pazienti molto resistenti e
denutriti richiedono occasionalmente nutrizione per via nasogastrica.
Non appena lo stato nutrizionale e l'equilibrio elettrolitico si sono stabilizzati, ha inizio il trattamento a lungo termine. La psicoterapia ambulatoriale è il caposaldo del trattamento. I trattamenti devono sottolineare risultati comportamentali, come normalizzare l'alimentazione e il peso. Il trattamento deve continuare per un anno intero dopo che il peso è stato ripristinato. I risultati sono migliori negli adolescenti che hanno la malattia da < 6 mesi.
La terapia
familiare, in particolare utilizzando il modello di Maudsley (chiamato anche
trattamento basato sulla famiglia), è molto utile per gli adolescenti. Questo
modello prevede 3 fasi:
Ai membri
della famiglia viene insegnato come alimentare l'adolescente (p. es.,
attraverso pasti familiari supervisionati) e ripristinare il peso (a differenza
dei primi approcci, questo modello non colpevolizza la famiglia o l'adolescente
per lo sviluppo del disturbo).
Gradualmente,
il controllo dell'alimentazione torna all'adolescente.
Appena
l'adolescente è in grado di mantenere il peso raggiunto, la terapia si
concentra sul produrre una sana identità adolescenziale.
Il trattamento dell'anoressia nervosa è complicato dall'avversione del paziente per l'aumento di peso e dalla negazione della malattia. Il medico deve cercare di stabilire una relazione serena, interessata e stabile, mentre incoraggia fermamente un ragionevole apporto calorico.
Il trattamento prevede anche un monitoraggio regolare del follow up e spesso un team di operatori sanitari, tra cui un nutrizionista, che può fornire piani pasto specifici o informazioni sulle calorie necessarie per riportare il peso a un livello normale (per approfondimenti, qui).
Analisi perfetta sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista clinico. Articolo che tutti dovrebbero leggere. Francesca ♥️
RispondiEliminaGrazie mille! La materia è complessa e, soprattutto, delicatissima. Però, come hai scritto tu, bisogna parlarne!
RispondiElimina