Assassino di Pier Paolo Pasolini, ✞ 2 novembre 1975
Non è amore
colpa il non fare dei miei affetti
Amore? Molta colpa, sia
pure, se potrei d’una pazza purezza,
d’una cieca pietà vivere giorno
per giorno… Dare scandalo di mitezza.
Ma la violenza in cui mi frastorno,
dei sensi, dell’intelletto, da anni,
era la sola strada. Intorno
a me alle origini c’era, degli inganni
istituiti, delle dovute illusioni,
solo la Lingua: che i primi affanni
di un bambino, le preumane passioni,
già impure, non esprimeva. E poi
quando adolescente nella nazione
conobbi altro che non fosse la gioia
del vivere infantile – in una patria
provinciale, ma per me assoluta, eroica –
fu l’anarchia. Nella nuova e già grama
borghesia d’una provincia senza purezza,
il primo apparire dell’Europa
fu per me apprendistato all’uso più
puro dell’espressione, che la scarsezza
della fede d’una classe morente
risarcisse con la follia ed i tòpoi
dell’eleganza: fosse l’indecente
chiarezza d’una lingua che evidenzia
la volontà a non essere, incosciente,
e la cosciente volontà a sussistere
nel privilegio e nella libertà
che per Grazia appartengono allo stile.
“Quando
lui scriveva era molto provocatorio, duro e severo. Tutti pensavano che lui
fosse così, ma in realtà nella vita privata era di una mitezza e di una
dolcezza incredibili. Era timido, introverso e silenzioso. Ma il suo era un
silenzio partecipe, di qualcuno che ti era vicino. Parlava poco. Poi nelle
occasioni pubbliche parlava”, così Dacia Maraini raccontava
Pasolini, amico. E collega.
Scrittore,
poeta, regista, attore, giornalista: era tutto questo, Pasolini. L’emblema
dell’intellettuale, un grande pensatore del XX secolo. Tanto amato quanto
odiato e discusso. Protagonista in vita, così come dopo - e per la sua morte.
La
morte di Pier Paolo Pasolini si insinua in un contesto criminale patologico,
fitto di misteri e incoerenze, che trascina dietro di sé sospetti, dubbi e,
soprattutto, tanto amarezza.
Muore
il 2 novembre 1975, all’età di 53 anni. Il suo corpo fu straziato: percosso il
capo da una tavola di legno. E, infine il suo corpo investito dalla sua stessa
autovettura, mentre il suo assassino (o i suoi assassini) si davano alla fuga.
Il luogo del delitto: il Lido di Ostia.
“La
morte del Pasolini era stata determinata da rottura del cuore, con
emopericardio, causata dalla compressione esercitata sul torace dal passaggio
del l'autovettura, che aveva cagionato la frattura del corpo sternale e di
numerosi elementi costali” – si legge nel corpo della Sentenza della
Suprema corte di Cassazione.
Ed il
dubbio circa la pluralità degli autori del massacro è stato sventato dalla
realtà processuale e, dunque, dal giudicato di condanna tramite conferma del
disposto di cui alla sentenza del 26 aprile 1976 con la quale il Tribunale per
i minorenni dichiarò Pino Pelosi colpevole di omicidio volontario,
commesso in concorso con altre persone rimaste ignote.
I
carabinieri fermano un giovane – il diciassettenne Giuseppe Pelosi,
detto Pino, mentre, a forte velocità, non arrestandosi all’alt,
procedeva contromano, a bordo dell’Alfa Romeo di proprietà di Pier Paolo
Pasolini.
Sentito,
poi, da un Magistrato, Pelosi confessava di aver ucciso Pier Paolo Pasolini –
per legittima difesa e, in specie, per difendersi dal tentativo di
un’aggressione sessuale.
La
sera della sua morte, infatti, Pier Paolo Pasolini aveva incontrato Pelosi, nei
pressi della Stazione Termini, a Roma, caricato in macchina con il chiaro e
dichiarato intento di intrattenere un incontro di natura sessuale, dietro
corresponsione di una somma di denaro. Dopo aver cenato insieme, pertanto, i
due si appartavano nei pressi del Lido di Ostia.
Ed è
proprio qui che il Pelosi racconta di aver subito un’aggressione violenta,
diretta a costringerlo a consumare un rapporto sessuale che non voleva
intrattenere (che però, in altre deposizioni, afferma di aver consumato
coscientemente) - alla quale aggressione reagiva con altrettanta violenza,
finché – agonizzante e rantolante, Pasolini rimaneva inerme a terra.
Salito
sull’auto con l’intento di fuggire, Pino Pelosi non si accorgeva di inveire sul
corpo di Pasolini, investendolo e, di fatto, determinandone, così, la morte.
Nel
momento della deposizione con il Magistrato, Pelosi ha sempre affermato di
essere stato da solo e di aver agito autonomamente (deposizione poi
ritrattata nel corso degli anni).
Con
sentenza del 26 aprile 1976 il Tribunale per i minorenni dichiarò il Pelosi colpevole
di omicidio volontario, commesso in concorso con altre persone rimaste
ignote, nonché dei delitti di atti osceni e di furto aggravato e, con la
diminuente della minore età e le circostanze attenuanti generiche (ritenute per
il furto equivalenti alle aggravanti), lo condannò alla pena complessiva di
anni nove, mesi sette e giorni dieci di reclusione e lire 30.000 di multa. Si
legge, infatti che “la Sezione per i
minorenni della Corte d'appello di Roma, con sentenza del 4 dicembre 1976,
assolse il Pelosi dall'imputazione di atti osceni, mentre confermò le
statuizioni della sentenza di primo grado relative agli altri due reati (omicidio
e furto) ascritti al Pelosi, secondo l'originaria imputazione (non
menzionante il concorso di ignoti). Avverso tale decisione il Pelosi ha
ritualmente proposto ricorso per Cassazione, a sostegno del quale sono stati
presentati motivi, nei termini, dal difensore di fiducia”.
La Corte di merito ha dimostrato la chiara intenzione del Pelosi di uccidere Pier Paolo Pasolini, accanendosi sul suo corpo ben oltre la necessità di difendersi (se mai ve ne fosse stata la necessità di farlo) e, soprattutto, lasciando la vittima rantolante ed esanime, oltretutto investendolo con l’autovettura, una volta datosi alla fuga. Non poteva, dunque, non raffigurarsi l’eventualità che la morte potesse essere diretta conseguenza del suo agire. E, pertanto, da qualificarsi come volontaria e non, come ad un certo punto prospettata, come preterintenzionale.
Dalla
sentenza:
Dai
due successivi univoci comportamenti, unitariamente considerati, ha tratto la
Corte il sicuro convincimento che il Pelosi, nel colpire accanitamente il
Pasolini fino a sentirne il rantolo e nello schiacciarne il corpo con
l'autovettura, non poté che essere animato da volontà omicida, attesa l'inequivoca
efficacia dei mezzi usati e la persistenza e rinnovazione dell'azione lesiva,
condotta fino all'eliminazione di ogni possibile dubbio di sopravvivenza della
vittima.
E una
significativa conferma della piena consapevolezza del delitto da parte del
Pelosi la Corte ha ritenuto di dover trarre dalla circostanza che il giovane,
accompagnato dopo il suo arresto per il furto dell'autovettura nel carcere
minorile di Casal di Marmo, confidò poche ore dopo a un compagno quando ancora
nulla gli era stato contestato in ordine alla morte dello scrittore e nulla
sapeva del rinvenimento del cadavere e delle indagini appena iniziate – di
avere “ammazzato un uomo, e precisamente Pasolini”, aggiungendo – come
egli stesso ha ammesso “tanto fra poco lo vengono a sapere; mica son
deficienti, quelli!”.
Pelosi,
dunque, reo confesso del delitto di Pier Paolo Pasolini, dapprima viene
condannato (in concorso con ignoti) per omicidio volontario e, successivamente,
reputato unico autore del delitto e responsabile diretto della morte del Poeta.
L’inchiesta di Oriana Fallaci per L’Europeo - 21.XI.1975
Oriana
Fallaci si fa promotrice di un’inchiesta volta ad indagare sulla morte
dell’amico Pasolini, raccogliendo testimonianze (purtroppo rimaste nell’ombra
dell’anonimato), pubblicate su L’Europeo il 21 novembre 1975.
Fallaci
racconta di aver intervistato “un poveretto che appartiene al mondo dei
prostituti romani conferma che Pasolini non fu ucciso da Pelosi e basta: fu
ucciso da un gruppo di teppisti che lo seguirono e gli tesero un agguato per
rapinarlo o punirlo, magari su incarico altrui” … il quale affermava:
“Supponiamo
che io abbia un debito da saldare con quel mondo perché ho fatto uno sgarro o
un errore, e che i miei compari vogliano servirsi di me per rapinare Pasolini.
È già successo, a Pasolini, d’essere rapinato dai ragazzacci: più volte, e
anche pochi mesi fa. Di notte Pasolini non va mai in giro con più di ventimila
lire in tasca, però porta sempre con sé il libretto degli assegni. Alcuni mesi
fa, il colpo degli assegni è riuscito. Pasolini voleva farsi un sandwich con
due del Colosseo e, anziché in un prato, quelli l’hanno portato su un ponte.
Qui, minacciandolo di buttarlo sotto, nel Tevere, gli hanno fatto firmare un
assegno da 250 mila lire. (I carabinieri
lo sanno, l’episodio è agli archivi.) Al Colosseo e ai giardinetti se ne parla
ancora, con ammirazione e con rabbia: bravi, sì, ma perché solo
duecentocinquantamila? Col libretto degli assegni potevi pretendere molto di
più, tutto ciò che volevi. Il colpo va tentato di nuovo, e Pelosi ci sta. Farà
da esca. Lo condurrà in un luogo sicuro, e in pochi minuti tutto sarà sistemato.
… Così
avviene. Pasolini è però coraggioso e robusto. Tenta di ribellarsi e bisogna
pestarlo: a un punto tale che resta lì come morto. C’è una breve discussione
concitata: che fare? Tanto vale finirlo, sennò ci riconosce. D’accordo: e se
gli passassimo sopra con l’automobile? Sì, e poi? Poi nulla: gli si porta via
l’automobile e la si vende a pezzi. Grazie tanto, dice Pelosi, ma ai
giardinetti hanno visto salire me sulla “GT”: la colpa la daranno a me. A te la
danno comunque, rispondono i compari, però una cosa è se scoprono che hai agito
con altri a scopo di rapina e una cosa è se gli racconti d’aver agito da solo:
per legittima difesa in quanto Pasolini ha offeso il tuo onore …
… Sei
minorenne. Nel caso peggiore ti becchi due o tre anni, nel caso migliore vai
assolto: povero-ragazzo-insidiato-e-sedotto-da-un-depravato- come-Pasolini.
Pelosi se ne convince. I due scappano e lui resta solo, accanto al cadavere
sfigurato. Ha un attimo di smarrimento, grida la frase udita dal testimone che
tace: «Mo’ me lasciate solo, mo’ me lasciate qui!». Ma subito si riprende. Si
sfila l’anello, lo getta per terra, parte con la “GT” contromano e a velocità
esagerata. Lo beccano in un quarto d’ora.
“Ebbi i primi accenni, in ordine all’eventualità che il Pasolini non fosse stato ucciso solo dal Pelosi, ma anche da due motociclisti, e che ciò fosse stato visto da qualcuno, e che l’iniziale versione raccolta dalla S.V. non fosse quindi esatta, da una giornalista americana del “Chicago Tribune”, Kay Withers, che ritengo abiti a Roma e che a sua volta riferiva voci provenienti da due giornalisti dell’agenzia “Reuter”. All’inizio non detti peso all’accenno, ma il racconto tornò alla mia memoria allorché ebbi un incontro con una persona che mi dette la narrazione sulla morte di Pasolini da me riportata nell’articolo Ucciso da due motociclisti? su “L’Europeo”. Prima della pubblicazione dell’articolo. e anche per ottenere il giudizio di un collega e per approfondire i fatti, volli avere un altro colloquio con l’individuo alla presenza del dott. Libero Montesi, vice-direttore della rivista a Roma: ma alle nostre sollecitazioni per ottenere dall’informatore il nome del testimone che dalle baracche avrebbe visto, la notte dell’assassinio, lo svolgimento dei fatti, egli si dimostrò spaventatissimo e rifiutò dichiarando che il testimone si sarebbe rifiutato di parlare con chiunque perché aveva paura e non avrebbe parlato nemmeno “coperto d’oro”. Anche l’invito rivolto all’informatore affinché anche per scritto anonimo o telefonata il giornale potesse acquisire maggiori conoscenze, non ebbe successo, né ebbero successo ulteriori tentativi di persuasione.
Noi cercammo di appurare altre notizie dal direttore della “Reuter”, che disse di non sapere nulla. La Withers mi riferì poi, o almeno così dedussi da una successiva conversazione con lei, che uno dei due giornalisti della “Reuter”, da lei interpellato, le aveva detto di aver letto le voci relative sulla stampa.
Non
sono in grado di dare indicazioni sul Gianfranco Sotgiu (generalità che io ricavai dal passaporto da
lui esibitomi) e che venne a parlare con me: era un uomo magro, di media
statura, di età tra i 25 e i 30 anni, con i capelli scuri e con leggere
inflessioni romanesche nell’accento.
Voglio precisare che, circa la persona che mi informò, e che desidero che si indichi sempre come persona senza precisazione di sesso (intendo in tal modo che si rettifichino i punti del verbale in cui la si indica con la qualificazione maschile), non ritengo di fornire alcun particolare, considerandomi vincolata dal segreto deontologico. La indicazione di Stella Angeletti Di Martino la ricavai dal “Paese Sera”. Aggiungo a richiesta della S.V. che la persona che ci informò non volle alcun compenso.
Dopo la pubblicazione del mio primo articolo ebbi una conversazione nel mio ufficio con il Malusà Libero, il quale mi offriva una sua personale ricostruzione dei fatti. Anzi preciso che tale persona non si qualificò, e che il nome di Malusà Libero mi viene fatto dalla S.V. Aveva comunque una barba biondiccia che gli ricopriva la parte inferiore del viso. Non mi parve persona attendibile e quindi al più presto la congedai, anche perché il suo rifiuto a qualificarsi e a fornire le ragioni del suo interessamento mi lasciarono perplessa”.
Oriana
Fallaci durante il processo contro Pelosi. 8 marzo 1976
Giuseppe
Salmè, già magistrato e presidente di sezione della Corte di cassazione, è stato
componente del collegio del Tribunale per i minorenni di Roma (con Presidente
del collegio giudicante è Carlo Alfredo Moro, fratello del politico DC) che ha
giudicato Giuseppe Pelosi per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini – pubblica
alcune annotazioni sul delitto Pasolini. In particolare, in relazione alla
deposizione di Oriana Fallaci, afferma:
- Una
prima questione riguardò la testimonianza di Oriana Fallaci, la quale,
dopo aver riferito di alcuni particolari della vicenda oggetto di accertamento
processuale si rifiutò di indicare le fonti dalle quali l’aveva appresa. Il Tribunale,
anticipando la soluzione accolta dall’art. 200, 3° comma del codice di
procedura penale del 1989, ritenne che non sussistessero gli estremi del reato
di reticenza e quindi della possibilità per il giudice di emettere anche
d'ufficio mandato di arresto del testimone prevista dall’art. 359 cod. proc.
pen. all’epoca vigente, perché l’art. 2, 3° comma della legge 3 febbraio 1963,
n. 69 prevede il dovere dei giornalisti di rispettare il segreto
professionale sulla fonte delle notizie.
- Il
punto centrale della sentenza, che fu poi al centro delle successive vicende
processuali, è stato certamente il tema del concorso nell’omicidio.
- Pasolini
aveva riportato numerose lesioni e aveva perso molto sangue, Pelosi, che
pure non soverchiava la vittima per prestanza fisica, aveva poche tracce di
sangue di Pasolini addosso e solo una leggera frattura del setto nasale che lui
stesso, peraltro, aveva giustificato con l’urto contro il volante dell’auto al
momento in cui era stato fermato dai carabinieri;
- macchie
di sangue di Pasolini furono trovate sul tettino dell’auto, lato passeggero, ma
nessuna macchia fu lasciata sull’auto dal lato guidatore e, soprattutto sul
volante; il che dimostra le macchie non furono lasciate da Pelosi che era
appunto al volante, ma neppure da Pasolini che, secondo il racconto
dell’imputato, non si avvicinò mai alla sua auto dopo essere stato colpito.
Ora,
per quanto è sempre bene attenersi alle realtà processuali, le inchieste e le
deposizioni giudiziarie possono avere il fondamentale compito di insinuare il
dubbio, anche legittimo, circa la modalità di esecuzione di un delitto,
soprattutto quando esso si colloca in un locus temporale così lontano, nonché
distante dagli attuali strumenti di analisi e ricerca del vero, di cui
dispongono, oggi, gli inquirenti.
Come
affermava Oriana Fallaci, porre dei punti interrogativi può servire,
altresì, a contribuire alla ricerca della verità. Così come Lei stessa aveva
fatto.
Tuttavia,
la riflessione cui – dal punto di vista meramente criminologico – è possibile
addivenire sta proprio nel non cadere nella tentazione di credere, banalmente,
che la vittima di un delitto possa aver contribuito alla propria morte.
Su questo, proprio lo stesso magistrato Giuseppe Salmè ha bene affermato:
Come
spesso è avvenuto e continua ad avviene nell’esperienza giudiziaria,
specialmente in tema di delitti di natura sessuale, sempre forte è la
tentazione paradossale di contrapporre all’autore formale del delitto, la
responsabilità sostanziale della stessa vittima. “Pasolini è l’autore del
proprio omicidio”. È paradossale, eppure è stato uno dei temi che ha percorso
il dibattito pubblico e a tratti persino quello giudiziario. Offesa più
grave alla dignità della vita umana non poteva essere recata.
VICTIM BLAMING: la colpevolizzazione della vittima
Con
il termine Victim Blaming si intende un concetto criminologico
coniato dallo psicologo americano William Ryan il quale – contraddicendo
le teorie del sociologo Daniel Patrick Moynihan, sul tema della
ghettizzazione della popolazione afroamericana in quartieri, affermava che la
causa della loro emarginazione e della conseguente povertà non poteva (e non
doveva) essere attribuita ai modelli sociali e culturali delle stesse
popolazioni – di fatto emarginate.
Tale
concetto, psico-filosofico – viene spesso trasposto in materia processuale
penale, nonché criminologica, in quanto utilizzato per identificare quelle
situazioni nelle quali le vittime di un delitto sono state reputate complici
(se non addirittura, colpevoli) del delitto di cui sono esse stesse vittime.
Si
pensi all’assunto per il quale indossare una minigonna potrebbe aver
contribuito alla determinazione della condotta dello stupratore. O affermazioni
rivolte ad un partner a giustificazione della propria aggressività (ad esempio,
dire “mi hai provocato” o “sono agitato o nervoso per colpa tua”.
O,
nel delitto di Pier Paolo Pasolini, affermare che la sua condotta
sessuale, la promiscuità e la ricerca di sesso con estranei, a pagamento,
abbiano contribuito alla determinazione della sua stessa morte, corrisponde a
tutti gli effetti, ad una torbida colpevolizzazione di un uomo, già vittima del
pregiudizio, attribuendogli, altresì, l’irragionevole responsabilità della
propria morte.
Scriveva
il professore e giurista Stefano Rodotà che a carico di Pasolini non si
sono celebrati tantissimi processi, ma “un processo solo, ininterrotto per
almeno vent’anni, che si gonfia e si arricchisce, di dirama e si ritrae, sempre
con lo stesso oggetto e la stessa finalità, mettere in dubbio la legittimità
dell’esistenza di una personalità come Pasolini nella società e nella cultura
italiana. […] Pasolini è la somma di tutti i vizi, incarna il sogno di chi
vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo” (Il
processo. In memoria di Pier Paolo Pasolini, in LAURA BETTI (a cura di), Pasolini:
cronaca giudiziaria, persecuzione e morte, Milano, 1977).
È
stato attuato un preciso congegno processuale volto a distruggere l’immagine,
la carriera e la vita di Pasolini, considerato psicopatico pericoloso ed
anomalo sessuale (così descritto in una relazione del Processo di Latina).
Nell’apice
del suo successo come scrittore, poeta, regista e, da ultimo, giornalista,
Pasolini è stato protagonista di un’ottantina di processi (per furto di
manoscritti, rissa, atti osceni in luogo pubblico, diffamazione, calunnia,
spettacolo osceno, stampa pornografica, ubriachezza, corruzione di minorenni).
Nessuna condanna determinante.
Da
ultimo (ed in concomitanza con la stesura del testo Petrolio, rimasto
incompiuto) la sua personale inchiesta nei confronti della classe dirigente e –
in parte – della classe politica italiana che, in diverse occasioni, aveva
condannato, già in vita, Pasolini.
Con certezza, è possibile affermare che quella di Pasolini è una storia personale, prima ancora che artistica, discussa e costantemente al centro della cronaca dell’epoca. Con ripercussioni attuali in ambito giudiziario, sociale e, soprattutto, di eredità artistica.
Ho letto tanto Pasolini e su di lui pubblicato qualche libro, per cui per me è stato un piacere leggere quest’interessante ricostruzione giudiziaria a cura del Dott. La Rocca. Molto curata è anche la sottolineatura del ruolo della Fallaci. Complimenti.
RispondiEliminaGrazie Prof. Vitale per il suo prestigioso rilievo. Leggere le opere di Pasolini equivale a conoscere il suo vissuto e, di conseguenza, permette di comprendere al meglio le vicende giudiziarie che l'hanno coinvolto in vita e, purtroppo, dopo la morte.
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