Femminicidio e violenza di genere: dal patriarcato alla patologia culturale.
L’esperienza patriarcale costituisce quella radice infetta e profonda da cui partire per comprendere l’evoluzione di una patologia culturale il cui proliferare ha condotto e conduce ancora ai molteplici casi di femminicidio cui si assiste quasi quotidianamente.
Ad oggi, in Italia, si conta una vittima
femminile di omicidio ogni tre giorni. A luglio 2025, 52 sono state le vittime
donne di omicidio e, tra queste, 45 sono vittime di femminicidio avvenuto in
ambito familiare/affettivo e 45 per mano di un ex partner. Si noti che il
totale degli omicidi volontari nello stesso periodo (ricomprendenti vittime
maschili) ammonta a 156.
Ogni femminicidio, spesso preceduto da
condotte anticipatorie dell’evento – tra le quali lo stalking ne rappresenta il
precursore più diffuso, unito a condotte violente, fisiche o anche psicologiche
– matura la propria essenza nell’ambito familiare o, come in questo caso, in un
contesto di relazioni sentimentali non necessariamente stabili, soprattutto dal
punto di vista emotivo.
Ora, che cosa sia il femminicidio è ben
chiaro, soprattutto nell’ambito della dottrina criminologica o penalistica che,
sul punto, è unanime nel dare valore al significato delle parole, da adeguarsi
al contesto sociale che ne impone un’evoluzione dal punto di vista giuridico.
Ma questa chiarezza concettuale, tuttavia,
potrebbe non essere ben nota ai tanti (e sono tanti!) che ancora non
comprendono la necessaria esigenza di nominare le cose con il proprio nome, di
“dire le cose come stanno”. Penso a tutti quelli che – sommariamente –
continuano ad affermare che “esiste già il reato di omicidio, ed esso si
riferisce agli uomini sia quanto alle donne” e che “si esagera nel voler a
tutti i costi parlare di femminicidio”.
Cercando di stare lontani da giudizi – che
sarebbero molto crudi, in questo senso – bisognerebbe invece avere ben chiara
la struttura del concetto di femminicidio e che l’uccisione della propria
partner, uccisa in quanto donna, da un lato, e l’uccisione di una donna nel
corso di una rapina o per un incidente stradale, sono concetti ben diversi,
giuridicamente e, soprattutto, dal punto di vista sociologico.
Il femminicidio è oltre la violenza: di
essa si nutre, e da essa trae la forza, concettuale e dinamica, per
esplicitarsi. Una violenza che si acquisisce nel tempo, che non necessariamente
è insita nel temperamento o nell’attitudine caratteriale. Il femminicidio è il
culmine di un iter violento perpetrato dall’uomo e subìto dalle donne. Una
violenza consumata al fine di ripristinare un arcaico potere sulla donna, che
alimenta quella voglia di controllo tipica di quell’uomo violento, frustrato,
represso il quale, incapace di placarla, annienta totalmente l’autonomia
psicologica, prima, fisica, poi, della donna.
E se in minima parte chi uccide è affetto
da patologie psichiatriche (e quasi del tutto nulle le ipotesi di raptus
omicida), al contrario una percentuale molto alta di femminicidi è stata,
appunto, preceduta da ripetuti episodi di violenza aggravata nel tempo,
commessi da persone mediamente capaci, il cui range patologico risiede nel
disagio, in primis, culturale, trasmesso e acquisito.
Come fornito dai dati Istat, infatti, il
femminicidio rappresenta una parte preponderante degli omicidi di donne,
intendendo con questo termine la caratteristica della maturazione in ambito
familiare o all’interno di relazioni sentimentali. Ed è lo stesso istituto
nazionale di statistica a fornire dati inerenti alcuni fattori di rischio. Tra
questi:
-
il basso livello socioeconomico,
-
l’abuso di alcol (o altre sostanze) da parte dell’autore
della violenza,
-
le storie di abusi e di violenze nell’infanzia
(dell’abusante).
Su quest’ultimo punto, proprio in linea con
la teoria dell’apprendimento sociale, gli uomini che hanno assistito a episodi
di violenza (ad es. del padre nei confronti della propria madre) hanno più
probabilità di diventare, da adulti, partner violenti. Si parla infatti di
trasmissione intergenerazionale e di ciclo della violenza: la violenza, dunque,
si trasmette tra le generazioni, così come a trasmettersi sarà quella
distruttiva patologia culturale che vede quei concetti patriarcali trasmettersi
sotto forma di valori insiti e caratterizzanti alcuni nuclei familiari o
sociali.
Tra questi, gerarchia familiare e divisione
dei ruoli di genere ne rappresentano, sicuramente, la matrice infetta.
Focalizzando l’analisi all’interno della
società stessa, tale concetto si sviluppa nella considerazione, storicamente
radicata, della figura maschile all’interno di un sistema piramidale che
attribuisce potere all’uomo stesso e dal quale potere derivano tutte le
conseguenti dinamiche di controllo sociale e politico, relegando le donne a
ruoli subordinati.
Il femminicidio e la violenza di genere non
sono fenomeni distinti, ma manifestazioni estreme e interconnesse di un sistema
sociale, il patriarcato appunto, che storicamente assegna potere e privilegi
agli uomini, relegando le donne e le minoranze di genere in una posizione di
subalternità.
Questa dinamica di potere diseguale è il
terreno fertile su cui attecchiscono atti violenti, motivati non da pulsioni
individuali, ma da un profondo senso di possesso e controllo.
Ma cos’è
il Patriarcato?
Il patriarcato è un sistema culturale che
in Italia si è perpetrato per anni, covato, nutrito e idealizzato attraverso
una moltitudine di stereotipi e valori che hanno influenzato la società,
persuadendo il comportamento dei soggetti maggiormente vulnerabili.
Il patriarcato, con i suoi pseudo-valori, è
esso stesso violenza, anzitutto psicologica. È una violenza subdola, perché
celata dal velo indiscusso della tradizione, la cui matrice è dannosa e
umiliante anche nei confronti di chi, all'interno di quel sistema, ne
rappresenta l'emblema: l'uomo.
In un simile contesto, il femminicidio
rappresenta l'apice di un continuum di violenza: come detto non si tratta di un
"semplice" omicidio, ma di un atto con un forte significato
simbolico: è la punizione estrema per la donna che si discosta dalle
aspettative patriarcali, che rivendica la propria autonomia e che rifiuta la
sottomissione. La sua radice etimologica, dal latino femina (donna) e caedere
(uccidere), ne sottolinea proprio questa specificità.
Violenza
di genere
La violenza di genere, invece, è un
concetto più ampio e abbraccia tutte le forme di violenza fisica, psicologica,
sessuale ed economica che si esercitano a causa dell'identità di genere di una
persona. Una forma di violenza che non si limita alle sole donne, ma che
riguarda anche quelle minoranze di genere, e che comprende altresì alcuni
uomini che subiscono violenze a causa del loro naturale orientamento sessuale.
Ecco, in tale contesto sarebbe opportuno
parlare di orientamento e non di inclinazione né di devianza sessuale, termini,
anch’essi di matrice patriarcale che suggeriscono che l'omosessualità sia una
deviazione o una tendenza da cui ci si può "inclinare" in altre
direzioni; l’orientamento sessuale rientra tra le caratteristiche stabili e
fondamentali della persona, facendo esso riferimento all'attrazione emotiva,
affettiva, romantica e/o sessuale che una persona prova verso altre persone
appartenenti al suo stesso sesso.
La violenza omofobica, dunque, scaturisce
dalla stessa logica che considera l'orientamento sessuale non eterosessuale
come una minaccia all'ordine sociale stabilito: in questo senso, l'aggressore
non sta solo attaccando un individuo, ma sta anche riaffermando il proprio
potere e la propria superiorità all'interno del sistema patriarcale e rispetto
al precetto eteronormativo e maschilista imposto, appunto, dal patriarcato
stesso.
Ed eccola la matrice comune che lega questi
fenomeni e che agisce su più livelli:
- sociale: attraverso la perpetuazione di stereotipi di genere rigidi,
assegnando ruoli e comportamenti "appropriati" a uomini e donne.
L'uomo deve essere forte, assertivo e dominante, mentre la donna deve essere
remissiva e accudente.
- culturale: giustifica la
violenza attraverso narrazioni e miti che la rendono accettabile o inevitabile:
ci si riferisce, in particolare, a tutte quelle rappresentazioni culturali (nel
cinema, nella letteratura, nella musica, nei modi di dire) che modellano e influiscono
il nostro modo di pensare. Narrazioni, appunto, che non nascono mai dal nulla,
ma che vengono prodotte e diffuse all'interno di un sistema che, storicamente,
ha sempre messo al centro la figura maschile – dominante - con i suoi presunti
diritti.
- istituzionale: spesso, le
istituzioni non forniscono una risposta adeguata, banalizzando o minimizzando
la violenza, e talvolta persino incolpando la vittima.
Ed è su quest’ultimo aspetto che vale la
pena soffermarsi: si pensi ai casi di violenza che vengono trattati con
leggerezza (un reato di stalking può essere declassato a una semplice “lite di
coppia,” o al linguaggio utilizzato in passato nei documenti di polizia o nelle
sentenze che può essere debole e sminuente). Questo significa che se le
istituzioni non rispondono in modo efficace e senza pregiudizi, finiscono per
sostenere indirettamente la cultura che ha causato la violenza, invece di
combatterla.
Altro aspetto incidente è quello della
colpevolizzazione della vittima, fenomeno tristemente diffuso. Le domande poste
alle vittime di violenza, come "Come eri vestita?", "Perché sei
andata con lui?", o "Perché non l'hai lasciato prima?", spostano
la responsabilità dell'atto dall'aggressore alla vittima. Questo approccio non
solo umilia la vittima, ma crea un deterrente per chiunque voglia denunciare
una violenza.
In conclusione, per affrontare il
femminicidio e la violenza di genere, dobbiamo guardare oltre il singolo evento
criminale e riconoscere la matrice comune che li alimenta: il patriarcato.
Questa è la vera sfida, quella che ci impone di superare la superficialità del
giudizio per esplorare le radici profonde del male.
La
violenza come questione culturale
Le strutture di potere patriarcali non si
manifestano solo con atti fisici, ma permeano la cultura e le istituzioni,
diventando invisibili e accettate. L'analisi di questi fenomeni non può
limitarsi al mero racconto di cronaca nera, ma deve interrogarsi sul perché la
violenza di genere sia ancora così diffusa. Dobbiamo riconoscere che la
violenza non è un incidente, ma il risultato di un sistema che la nutre.
Il cammino di Dante, dalla condanna del
peccato di sodomia all'Inferno alla purificazione dei lussuriosi nel
Purgatorio, mostra una graduale presa di coscienza della complessità del
giudizio. Allo stesso modo, anche la nostra società deve affrontare questo
percorso di consapevolezza, superando la tentazione di banalizzare il problema.
Dobbiamo riconoscere che la violenza non è un incidente, ma il risultato di un
sistema che la nutre.
La nostra
responsabilità
Il cambiamento, quindi, non può limitarsi a
un'azione repressiva, ma deve essere un profondo ripensamento culturale. In
questo senso, le parole della scrittrice Michela Murgia risuonano come un
monito essenziale. Con il suo lavoro, e in particolare con la sua opera Stai
zitta, ha denunciato la violenza delle parole e degli stereotipi che silenziano
le donne: “una donna che parla in contraddittorio provoca" sintetizza
perfettamente il ruolo delle narrazioni patriarcali che tentano di limitare
l'espressione femminile.
Riconoscere questa connessione tra cultura,
istituzioni e violenza è il primo, necessario, passo per costruire una società
che non si limiti a condannare i sintomi, ma che abbia il coraggio di sradicare
le cause. È un percorso difficile, ma è l'unico che ci può condurre fuori
dall'inferno della violenza e verso un purgatorio di purificazione (per
utilizzare la metafora dantesca). Solo riconoscendo e affrontando le colpe
sociali si può sperare di ascendere a un futuro in cui nessuno debba più subire
violenza a causa della propria identità. Questo percorso non è nuovo, ma
richiama le lezioni del passato, in particolare quelle dell'Illuminismo. Quel
periodo storico non fu solo un'epoca di progresso scientifico, ma una vera e
propria rivoluzione culturale che insegnò a usare la ragione critica per
mettere in discussione i dogmi e le superstizioni.
Si pensi a un nuovo illuminismo sociale: proprio come gli intellettuali del XVIII
secolo demolirono muri di ignoranza e pregiudizio, si deve utilizzare la
ragione per smantellare le narrazioni tossiche e i miti del patriarcato. Solo
rompendo questi vecchi schemi si potrà costruire una società più equa, dove la
violenza di genere non sia più accettata né tollerata.


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