L'infanzia dei cattivi. O come divennero così malefici
Benjamin Lacombe, Sébastien Perez insieme, per L’ippocampo, la casa editrice specializzata nella realizzazione di opere illustrate, rivolte ad un pubblico estremamente eterogeneo. Perfette per i bambini, adorabili per gli adulti: le illustrazioni interne sono dei veri e propri capolavori, tant’è che spesso, come in questo caso, sono affidate all’estro creativo e, interpretativo, di Benjamin Lacombe.
Per quanto
possa sembrare estremamente paradossale, presentare un libro (ipoteticamente
rivolto a bambini) in un blog di criminologia, in realtà già il titolo – e l’evoluzione
narrativa, nonché visiva interna – mostrano un leitmotiv di matrice intrinsecamente
criminologica.
L’interrogativo
che ogni criminologo si pone dinnanzi ad un criminale – ad un “cattivo” è,
infatti, sempre questo: come sono diventati
così malefici?
E di
conseguenza: si nasce cattivi? Si è resi tali da qualche fattore interno od
esterno? O, semplicemente si vuole essere cattivi?
Ed ecco,
allora che questo libro regala spazio a tutti coloro i quali hanno animato le
favole dell’infanzia di tutti, cattivi o malefici, cercando di comprendere le
ragioni di questo male, e l’origine.
L'infanzia dei cattivi - o come divennero così malefici
Benjamin Lacombe, Sébastien Perez
L’ippocampo, 2023
La criminologia,
come competenza formata da un collage di scienze autonome, ha sempre
cercato di fornire le risposte a questi interrogativi. E, laddove risposta non
c’è (come potrebbe ben accadere) ha tentato – e tenta, quantomeno, di fornire
agli studiosi o agli appassionati, gli strumenti necessari per analizzare situazioni
– i crimini ed i soggetti che pongono in essere condotte criminose.
Si giunge,
così, ad un costrutto, un elaborato frutto di un’analisi, di un ragionamento
sillogistico che possa condurre ad una risposta.
Il tema è
quello del male e di come esso possa insinuarsi nella vita di ciascuno e
come, da questi, possa confluire nella vita del prossimo.
Ne deriva
un’analisi del comportamento umano effettuata attraverso un profondo sistema
critico che consente all’uomo stesso di valutare (e giudicare) il proprio e
l’altrui comportamento.
«I soli
oggetti di una ragion pratica sono il bene e il male. Col primo s’intende un
oggetto necessario della facoltà di desiderare, col secondo un oggetto
necessario della facoltà di aborrire, ma entrambi secondo il solo principio
della ragione» - Immanuel Kant,
1724–1804
La
filosofia ha da sempre cercato di fornire adeguate risposte in merito alla
natura del male, così come universalmente concepito e percepito. Per farlo si è
sempre partiti dal concetto di bene, inteso come rettitudine e di giustizia.
Il
concetto di bene, contrapposto appunto al male ha radici lontane e poggia le
proprie basi teoretiche nell’antica Grecia, con il filosofo Platone e il suo
discepolo, Aristotele.
Suggestiva
ed oltremodo utile la metafora del Sole utilizzata da Platone nel VI secolo
avanti Cristo: il sole, sorgendo e levandosi in cielo, svela lentamente tutti
gli elementi che compongono il reale nutrendoli con i suoi raggi. Così il Bene,
suprema e definitiva realtà rappresenta la forza in grado di rivelare le cose,
pur essendo ben al di sopra di esse.
Pertanto, il
male corrisponde all’allontanarsi dal concetto, pacificamente accolto, di bene.
Bene
corrisponde all’agire secondo le regole (morali o giuridiche) e, il male, dunque,
rappresenta la trasgressione a tali costrutti – morali o giuridici che siano.
Il fulcro
centrale del discorso sta nel comprendere se tale trasgressione deriva da cause
interne al soggetto o esterne ad esso.
Il soggetto,
dunque, si presenta perfettamente sano, lucido ed è determinato nel raggiungere
il proprio obiettivo malevolo (o malefico).
Laddove,
saranno esterne tutte quelle cause che non derivano dalla diretta volontà del
soggetto, ma che derivano, ad esempio da una patologia (si pensi ad un disturbo
mentale) o che trovano ragione (ma, si badi bene, mai giustificazione!) direttamente
dal vissuto personale del soggetto e dalle influenze derivanti da fattori
esterni (famigliari o sociali).
Ora,
laddove non è possibile individuare un quadro clinico patologico e determinante
il comportamento delittuoso (si pensi ai delitti commessi in conseguenza di un
vizio di mente, di cui si è parlato qui), la criminologia moderna ha
tentato di far comprendere che esiste il
crimine a prescindere dalle patologie; esiste la cattiveria (concetto
non prettamente criminologico) e vi sono soprattutto i criminali lucidi e sani
di mente quindi imputabili, che commettono le loro azioni solo per raggiungere
vantaggi personali, il cui ego malevolo accresce in maniera proporzionale alla
natura dei crimini commessi, la cui forza è indice di una violenza che evolve a
tal punto, da spingerli all’incomprensibile.
Accantonate,
sebbene molto affascinanti, quelle teorie lombrosiane, cosiddette, biologiche e per le
quali l’uomo sarebbe portato a delinquere in quanto estrinsecazione di un
patrimonio cromosomico che si trascina in maniera naturale, la criminologia
passa attraverso lo studio delle teorie psicologiche.
Ed è
proprio nell’aggressività degli individui che è possibile individuare uno dei
principali mali della società.
Aggressività
da intendersi genericamente come l’insieme di quei comportamenti verbali o
fisici intenzionalmente diretti a cagionare sofferenza, dolore e danno ad
altri.
E se il
mondo animale mostra due tipi di aggressività, sociale, legata a manifestazioni
di rabbia e silenziosa, tipica dei predatori furtivi, negli esseri umani si
individuano due tipologie di aggressività: quella ostile e quella strumentale.
L’aggressività
ostile viene alimentata direttamente dalla rabbia, è perpetrata come fine a sé
stessa, deriva dall’odio ed ha per obiettivo quello di ferire o danneggiare
altri.
Tendenzialmente
la maggior parte degli omicidi avviene per azioni derivate da episodi di
aggressività ostile.
L’aggressività
strumentale, invece, ha l’obiettivo ultimo di arrecare sofferenza e dolore, ma
questo rappresenta solo un mezzo per raggiungere un altro scopo o un altro
fine.
L’aggressività
che pervade la società ha, pertanto, natura polisemica e può derivare da
importanti cause differenti tra loro; è possibile, infatti individuare:
un’aggressività che deriva da basi biologiche istintuali; un’aggressività
appresa per osservazione e imitazione; un’aggressività derivante da uno stato
di frustrazione.
Ed è
proprio sull’aggressività come risposta alle frustrazioni che vale la pena
soffermarsi: tale teoria - elaborata da J. Dollard nel 1939 - si fondava sul
legame fra frustrazione (intesa come qualunque evento che ostacola un
comportamento teso al raggiungimento di un obiettivo) e aggressività.
Nella
teoria si sosteneva che la frustrazione conduce sempre a qualche forma di
aggressività, emergendo quando la motivazione a raggiungere lo scopo è molto
forte, se si sperimenta un senso di gratificazione nell’ottenerlo e se
l’ostacolo tra noi e il nostro obiettivo è insuperabile.
L’aggressività,
infatti, non viene necessariamente indirizzata verso colui che rappresenta la
causa immediata e diretta della propria frustrazione: spesso, infatti, si
impara a gestirla, reindirizzandola su bersagli meno ostili, verso un nuovo
bersaglio, più facile, più sicuro e socialmente accettabile.
L’aggressività
non si limita a rispondere ad una provocazione: la teoria della
frustrazione-aggressività, infatti, sosteneva che qualsiasi frustrazione -
definibile come l’incapacità di realizzare un obiettivo importante - scatena
inevitabilmente l’aggressività.
Di notevole
importanza, dal punto di vista criminologico, poi, appaiono le teorie sociologiche.
Le teorie
sociologiche attengono ad una sfera sociale, appunto. Si parla infatti di
fattori criminogeni per indicare un ambiente od una realtà sociale
particolarmente votata al crimine. Appartengono a tale categoria le cosiddette
teorie ecologiche della criminalità, legate, cioè, all’ambiente.
In linea
con la teoria dell’apprendimento sociale, gli uomini che hanno assistito a
episodi di violenza (ad es. del padre nei confronti della propria madre…) hanno
più probabilità di diventare, da adulti, partner violenti. Si parla infatti di
trasmissione intergenerazionale e di ciclo della violenza: la violenza, dunque,
si trasmette tra le generazioni.
Nell’ambito
delle teorie sociologiche legate allo sviluppo di comportamenti criminali, è
fondamentale collocare al centro del discorso il concetto di regola.
Alle
regole su cui si poggia la società civile vi si può reagire con il consenso o
con il conflitto: cui seguono, appunto, le teorie del consenso, contrapposte
alle teorie del conflitto.
In base
alle teorie del consenso, le regole dettate e stabilite in una società poggiano
la loro attuazione sul consenso ad esse attribuito dalla maggioranza dei
cittadini.
La logica
premessa può essere riassunta nel brocardo latino ubi societas ibi ius: laddove
c’è una società, devono esserci delle regole che la disciplinino.
Le regole
sociali devono poi essere seguite ed applicate: in caso contrario, la reazione
dei consociati sarebbe votata al contrasto e, dunque, al conflitto con le
istituzioni che, di fatto, devono osservarle.
Le regole
rappresentano, dunque, un importante strumento di salvaguardia sociale: devono
esserci e devono essere osservate per non incorrere in situazioni di
disobbedienza civile (affinché ne cives ad
arma veniant).
Sulla base
delle teorie del conflitto, le regole sociali non sono espressione delle scelte
della maggioranza, ma sono il frutto dell’imposizione delle minoritarie classi
dominanti.
Tuttavia,
occorre qui evidenziare come il fatto di contravvenire, in sé, alle regole
sociale, non comporta necessariamente in compimento di un crimine, di un
delitto.
Il
contesto sociale in cui un individuo cresce potrebbe, dunque, influenzare la
percezione del comportamento che – a sua volta – potrebbe tendere
all’illegalità. In tal senso la causa di un comportamento criminale può essere
ascritta al tessuto sociale in cui l’autore-criminale è cresciuto e alle
influenze ambientali, cioè sociali.
Tornado a “L’infanzia dei cattivi delle fiabe - come divennero così malefici” appare evidente come l’autore faccia derivare l’origine delle condotte malevole alle sopracitate teorie psicologiche: i cattivi che abbiamo temuto e che, in un certo senso, hanno contribuito a rendere affascinanti i racconti della nostra infanzia hanno tutti un particolare vissuto o una storia di sofferenza alle spalle.
D’altronde, nell’essenza delle fiabe risiede
altresì il costrutto per il quale esse stesse sono state create: perseguire una
morale, un messaggio, o comunque collocare una ragione comprensibile,
giustificatrice di un comportamento malvagio.
L’Album di Benjamin Lacombe e Sébastien Perez, appartiene alla mia collezione ed è stato acquistato e non rappresenta alcuna forma di adv. Le foto dell'Album sono reali, e si riferiscono al mio volume.
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