Madri assassine: ratio e furor nei casi di figlicidio

È difficile pensare che una madre sana e apparentemente normale possa giungere a commettere, forse, il peggiore dei comportamenti criminali: l’uccisione dei propri figli. Allo stesso tempo, però, è sicuramente improbabile tendere a giustificare tali delitti tramite un’indecifrabile instillazione di un ipotetico seme della follia nella mente delle mamme. Di una madre si pensa sempre possa offrire la propria vita per salvare quella dei propri figli. Ma la stessa madre può giungere a desiderarne la morte, eliminandoli, quasi fossero degli ostacoli? Viene logico domandarsi quali siano le tappe dello sviluppo di una personalità che possono portare a commettere un gesto così incomprensibile. Esiste sicuramente l’estensione patologica, ma esiste, altresì, l’incapacità di contenere alcune emozioni negative, così forti, che possono indurre una persona a commettere del male, per colpire altri. Il figlio diventa un c.d. tramite punitivo attraverso il quale si vuole colpire qualcun altro. Il proprio compagno/marito, ad esempio. Un padre. Bene e male, infatti, possono convivere nella mente di alcune persone arrivando a governarne le scelte in maniera non sempre equilibrata. Non si parla, qui, di forze superiori benevole o malevoli. Si parla del reale sentire di un soggetto, delle sue capacità di percepire il bene ed il male. È un tema estremamente delicato - quello delle madri assassine – che unito all’incertezza e alla mancanza di conoscenza dei fatti, impone di parlarne con la doverosa cautela. In questa sede sarà possibile attingere ai fatti di cronaca quali strumenti di riflessione e punti di partenza per analizzare, dal punto di vista criminologico, quanto delineato dalla dottrina e dalla letteratura criminale. Importante è poi la delimitazione tra diritto e criminologia.  Per il diritto (per la legge, dunque) si distingue tra infanticidio in condizioni di abbandono (di cui all’art. 578 del codice penale) e tra omicidio (con l’aggravante specifica se trattasi del proprio figlio, ai sensi dell’art. 575 del codice penale). Come detto, in materia di infanticidio, è prevista la circostanza delle “condizioni di abbandono” spesso di difficile individuazione. La criminologia distingue tra neonaticidio, infanticidio e figlicidio.

  1. Neoanticidio => uccisione del figlio nelle 24 ore dal parto
  2. Infanticidio => uccisione del figlio entro il primo anno di età;
  3. Figlicidio => uccisione del figlio dal primo anno di vita in poi.
Ora, tolte le ipotesi patologiche conclamate, è opportuno qui riferirsi a quei casi di madri esenti da disturbi di natura psicologica. In tali ipotesi sarebbe opportuno considerare l’infanticidio (o l’omicidio del proprio figlio) relegandolo nel contesto sociale o ambientale famigliare nel quale si realizza. Equivale a considerare il soggetto senza snaturarlo dal contesto famigliare ad esempio, anzi, ponendo risalto alle relazioni che in tale contesto si sono sviluppate.  Un esperto americano di “disordini mentali” (c.d. mental disorders) Michael B. First – parla di disturbo di relazione, per riferirsi a tutte quelle ipotesi in cui ad essere patologico non è il singolo, ma l’intero gruppo ove si svolge la sua vita e dove si sviluppa la soggettività. Come dire che al di fuori di quel contesto, la personalità assume connotati di apparente normalità, o meglio, non risulti per nulla patologico. Ad essere patologiche sono dunque le relazioni.  È come se il soggetto pensasse che è proprio tale contesto a renderlo malato e  a desiderare il male, come reazione avversa. Come per allontanare un forte disagio. Un’importante classificazione del figlicidio fu proposta nel 1969 da J.P. Resnick il quale – tra gli altri – individuava il figlicidio per vendetta sul coniuge: è la cosiddetta Sindrome di Medea. Con tal espressione ci si riferisce alla donna, alla madre, che uccide i propri figli con l’obiettivo, subdolo e recondito, di voler distruggere - in realtà - il rapporto tra padre e figli. Ed ecco che tale omicidio (perché di questo si tratta) entra nel novero di quei delitti per vendetta: l’uccisione si carica di un valore simbolico.  Le vittime possono essere anche più di uno (omicidio plurimo aggravato) e l’impulso omicida può avere svariate origini: psicologiche o sentimentali, il cui denominatore comune è quasi sempre attribuibile alla paura dell’abbandono da parte dell’uomo (il cui impulso è ravvisabile dunque nel sentimento della gelosia) o, ad esempio in conseguenza di un tradimento, per cui l’uccisione della prole diventa espressione del desiderio di vendetta. Al triste epilogo può accompagnarsi il suicidio della donna.
La Medea di Euripide
Medea aveva due figli con Giasone. Insieme si trasferiscono a Corinto ma dopo un breve periodo la donna viene abbandonata e ripudiata dal marito il quale – conosciuta la Glauce (figlia di Creonte, Re di Corinto) decise di sposarla, garantendosi così la successione nel Regno. Mossa dal desiderio di vendetta, Medea attua quello che per Giasone sarà il più grande castigo: in primis cagionando la morte di Glauce e del Re Creonte. Fingendosi rassegnata, infatti, Medea dona alla futura moglie di Giasone un abito avvelenato ed una ghirlanda che nascondeva un rivolo di fuoco: indossata da Glauce, immediatamente si incendiava – uccidendo la donna e suo padre, giunto in suo soccorso. Giasone, disperato ed intento a salvare i propri figli dal rogo, rimane impietrito di fronte all’immagine di Medea che gli mostra i cadaveri dei figli – uccisi per negargli ogni discendenza.
Henri Klagmann, Medea, 1868, Museo delle Belle Arti di Nancy

Uccidere i figli corrisponderebbe all’uccisione del marito stesso: impedendogli la discendenza, gli si impedirebbe altresì la sopravvivenza attraverso di essi. Ma allora avrebbe potuto uccidere direttamente il marito, verrebbe da pensare. In realtà non sarebbe la stessa cosa: se ci si sofferma e se ci si sforza di intuire il pensiero di chi commette un simile gesto, l’uccisione diretta del coniuge non gli infliggerebbe quel dolore e quel tormento che la morte dei figli, certamente, gli cagionerebbe. E il desiderio di vendetta e di cagionare dolore al compagno è più forte del dolore che le stesse morti cagionerebbero alla madre – che spesso, di fronte ad un gesto così estremo, arriva ad uccidersi essa stessa.  Ed ecco che si compie, la vendetta: nel momento in cui si supera quel confine che separa una mera fantasia da un gesto vero e proprio, con lo scopo ultimo di arrecare il dolore più forte.

Per approfondimenti:
Resnick PJ. Child murder by parents: a psychiatric review of filicide _ Am J Psychiatry 1969; 126: 325-34
Alcune ricerche italiane sul fenomeno del figlicidio” - Vincenzo Mastronardi, Luana De Vita, Federica Umani Ronchi in www.rivistadipsichiatria.it, 2012

L'edizione che preferisco della Medea di Euripide è della Bur:

"Medea ordisce una vendetta tremenda contro il marito che l'ha abbandonata, uccidendo i propri figli e negandogli così l'autorità paterna istituzionalmente riconosciuta. Il genio di Euripide ci presenta un'eroina tragica totalmente nuova per la cultura greca del tempo, una donna appassionata e lucida, in cui l'impulso emotivo si unisce a un estremo controllo intellettuale" , qui

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