Ecco la storia della tortura nell’ordinamento italiano.


Urlo - E. Munch (1893)
Nel 1984 l’ONU adotta la Convenzione contro la tortura altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, rendendo così concreta la proibizione della tortura.
Nello stesso tempo invitava gli Stati aderenti ad adottare ogni misura necessaria per prevenire e lottare contro le torture e per difendere l'integrità fisica e spirituale delle persone private della loro libertà.
Anche l’Italia dal momento della ratifica di tale convenzione (avvenuta nel 1988) ha assunto direttamente  gli obblighi da essa derivanti.
Tuttavia, nonostante l’impegno formalmente intrapreso, nel codice penale italiano non è mai stato introdotto il reato di tortura.
Ma come mai? Per capirlo occorre necessariamente considerare l’evoluzione del concetto di tortura e dei riferimenti ad essa relativi.
In passato (e in taluni Stati ancora oggi) il ricorso alla tortura era diretto a ricavare informazioni da parte di persone catturate oppure imprigionate.
Oggi, tortura è “qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei” (e questo è scritto nella Convenzione ONU del 1984).
Bene. Siamo tutti consapevoli che praticare una tortura significa mettere in atto uno dei comportamenti più annientatori della dignità umana, dove l’etica viene spazzata via da un terribile delirio di potenza. La tortura è un abominio, un’azione che provoca naturale ribrezzo. E terrore.
Proprio per tutti questi motivi e, soprattutto, visto l’impegno derivante dalla Convenzione ONU del 1984, vi è l’obbligo giuridico prima, e morale poi, di introdurre le opportune norme ed attuare le naturali tutele in tema di tortura.
Ma qual è il vero motivo per cui il reato di tortura ha dovuto affrontare un percorso così lungo (e soprattutto lento) prima di poter fare il proprio ingresso nell’apparato giuridico italiano?
La risposta potrebbe essere tanto semplice quanto inquietante.
Ad aiutare a comprendere, interviene, tuttavia, una decisione della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che nel 2015 condanna l’Italia “per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001, dove, secondo i giudici le azioni della polizia ebbero finalità punitive con una vera e propria rappresaglia, per provare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime”.
Ora questo non significa che la tortura è una peculiarità delle forze dell’ordine. Anzi, credo e sono sicuro che l’attività delle stesse sia di matrice ed ispirazione protettiva.
Ma è capitato. È capitato di spingersi oltre le normali e comuni nozioni di difesa legittima o difesa da pericoli imminenti per le persone e la società tutta.
È capitato e vi sono state condanne. E risarcimenti.
Ma il buco normativo lasciava di fatto impunita una condotta specifica, dovendosi, in via residuale, appellarsi a fattispecie analoghe e casi simili. 


Un sillogismo giudiziale poco perfetto. Infatti, se:
  1. Si verifica un fatto di tortura (premessa maggiore)
  2. Si cercherà una norma la cui fattispecie astratta coincida con la fattispecie concretamente realizzatasi (premessa minore) => NB: laddove la norma specifica non è presente nell’ordinamento, si cercherà nello stesso, una norma che regola casi analoghi …
  3. La conclusione, cioè la sentenza, avrà un parametro punitivo di minore impatto.

La Corte di Strasburgo Corte ha parlato esplicitamente di “tortura” e ha invitato l’Italia a “dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte”.
Trent’anni di impunità, in Italia. E così, fa capire la Corte, non si può più andare avanti: senza il riconoscimento del reato di tortura le impunità continueranno e la posizione dell’Italia, giuridica nonché morale, sarebbe una di estremo svantaggio all’interno del panorama internazionale.
Da ricordare come il riconoscimento del reato di tortura non vuole essere un ostacolo all’attività delle forze dell’ordine, il cui ruolo, fondamentale è, come detto, protettivo nei confronti della società tutta. La norma dovrà punire la tortura e cioè, sanzionarla penalmente.
E Sanzionare penalmente coloro i quali infliggono volontariamente sofferenze fisiche o psichiche ad una persona che si trova in stato di privazione della libertà personale. In questo sta il discrimen.
Ma c’è di più. Senza il riconoscimento del reato di tortura, non sarà mai possibile perseguitare quelle condotte di tortura perpetrate all’estero nei confronti di cittadini italiani. E questo limiterebbe (e di fatto limita) la credibilità, l’interesse ed il rispetto nei confronti dell’Italia e dei suoi cittadini, lasciando impuniti certi comportamenti.
Nel frattempo, visto che abbiamo aspettato così tanto (trent’anni e più) possiamo aspettare ancora un attimo. Quel tanto che serve per perfezionare una norma ed avere una norma disposizione, pulita, sicura, garantista per tutti i soggetti coinvolti e soprattutto, il più possibile, giusta.
Quando il tema è quello dei diritti, e delle garanzie da essi derivanti, non è possibile tollerare un approccio superficiale.
Nessuna “informe creatura giuridica” (citando Vladimiro Zagrebelsky qui), nessun “contorto groviglio giuridico”, nulla di illogico.
Per approfondire, clicca qui.





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