Femminicidio: dal sospetto all’omertà. Quando la condivisione della paura diventa obbligo di denuncia.
L'analisi dei
fenomeni criminali complessi non può prescindere dall'indagine delle dinamiche
sociali e dei fattori ambientali che ne favoriscono la genesi e,
drammaticamente, la consumazione.
In questa prospettiva, l'omertà, intesa non solo
come patto di silenzio tra consociati, ma come inerzia collettiva o cecità volontaria di fronte alla devianza manifesta, emerge
come un fattore criminogeno di rilevanza strutturale.
Il tragico epilogo della vicenda di Pamela Genini si configura come un paradigma disarmante
di questa criminologia del silenzio.
La giovane vittima è stata assassinata a seguito di una escalation
di violenza pregressa che, stando alla cronaca, era notoria a un'ampia cerchia
di conoscenti, se non addirittura alle autorità preposte a intervenire. Tale
contesto non solleva solamente questioni di natura procedurale o di mala
gestio delle segnalazioni, ma investe il fondamento etico-giuridico della
responsabilità del terzo nell'intercettazione e prevenzione del reato.
Molto spesso, i reati che sfociano in eventi estremi come
il femminicidio sono quasi
invariabilmente anticipati da condotte criminose prodromiche, quali gli atti
persecutori (stalking – art. 612-bis c.p.) e, più comunemente, i maltrattamenti
contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.).
Queste fattispecie, che erodono progressivamente la
libertà e l'integrità psicofisica della vittima, si consumano spesso in un
contesto domestico o para-domestico, rendendo l'intervento esterno l'unica
potenziale forza di contrasto.
La vittima, per paura, dipendenza emotiva, senso di colpa
o ricatto, può essere paralizzata nella sua capacità di agire, astenendosi
dalla querela o dalla denuncia.
In questo vuoto d'azione si colloca l'obbligo morale e,
in molti casi, giuridico di chiunque sia a conoscenza dei fatti.
Denuncia e
perseguibilità d'Ufficio: l’imperativo giuridico
È fondamentale distinguere tra la querela,
che è una condizione di procedibilità riservata alla persona offesa per taluni
reati, e la denuncia, che, secondo l’art. 331 c.p.p., può essere
presentata da qualunque persona abbia notizia di un reato perseguibile
d'ufficio.
Proprio i reati di maltrattamenti contro
familiari e il tentato omicidio (e ovviamente l'omicidio) sono perseguibili
d'ufficio: ciò significa che, diversamente da quanto accade per reati a querela,
non è richiesta la volontà della vittima per l'avvio delle indagini.
In presenza di violenze fisiche o psicologiche reiterate
(maltrattamenti), la legge conferisce a familiari, amici, vicini, colleghi, e
persino al personale sanitario che redige un referto (art. 365 c.p. - obbligo
di referto per i sanitari), la piena legittimazione a informare l'Autorità
Giudiziaria.
La denuncia, che può essere presentata anche in
forma anonima per mitigare il timore di ritorsioni, rappresenta in questi
contesti non un mero atto facoltativo di civismo, ma un essenziale baluardo
difensivo che ha la capacità di attivare immediatamente l'apparato di
protezione, incluse le misure cautelari previste dal Codice Rosso (es.
allontanamento dalla casa familiare, divieto di avvicinamento).
La
Responsabilità Collettiva come Prevenzione Primaria
La mancata denuncia da parte di terzi non è
un'inerzia neutrale, ma si configura come un fallimento del sistema sociale nel
suo complesso, che permette al ciclo della violenza di chiudersi fatalmente.
La Criminologia ci insegna che la sicurezza non può
essere delegata unicamente alle forze dell'ordine, ma dipende da una vigilanza
diffusa e da una responsabilità
partecipativa.
Quando si è a conoscenza di atti di sopraffazione (stalking,
violenza fisica o psicologica), l'atto di denunciare travalica la semplice
segnalazione: è un dovere di solidarietà sociale e, in termini
legali, è il meccanismo più efficace per sottrarre la vittima alla tirannia del
suo aguzzino e per consentire allo Stato di esercitare la sua funzione di
tutela ex officio. L'omertà, in questi casi, è l'atto che indirettamente
legittima il sopruso: il silenzio rafforza la convinzione dell'aggressore di
poter esercitare impunemente il proprio controllo e la propria violenza,
sentendosi "protetto" dall'indifferenza (anche) della comunità.
La denuncia, al contrario, è l'unica risposta in grado di
salvare una vita.
L'indagine sulla criminologia del silenzio
conduce oltre la mera analisi del comportamento criminale, focalizzando
l'attenzione sull'inerzia omissiva del corpo sociale.
Sccertato che, di fronte a reati
procedibili d'ufficio come i maltrattamenti, il dovere di denunciare si
configura non come una facoltà, ma come un obbligo di solidarietà civica
e un atto di prevenzione primaria che ha il potere di interrompere la
spirale della violenza.
L'omertà collettiva è la falla sistemica
che permette all'aggressore di sentirsi convalidato e alla vittima di essere
ulteriormente isolata e delegittimata.
Dunque, rompere questo silenzio non è solo
una scelta morale, ma l'unica azione concreta in grado di attivare
tempestivamente il Codice
Rosso e le misure cautelari di tutela.
Il fallimento istituzionale o procedurale
è troppo spesso preceduto dal fallimento umano di chi, sapendo, non ha voluto o
saputo agire.
Il nostro impegno, come società civile e
come studiosi, deve tradursi in un'irrevocabile trasformazione della conoscenza
passiva in denuncia attiva. È l'unica via per onorare il prezzo altissimo
pagato da chi è stata tradita due volte: dall'aggressore e dall'indifferenza
circostante.
Che il monito finale non sia di paura, ma
di responsabilità incrollabile: che il silenzio assordante che ha avvolto il
dolore di Giulia Cecchettin, di Giulia Tramontano, di Pamela
Genini e di innumerevoli altre donne strappate alla vita, sia il grido che
ci impone di non tollerare più la complicità dell'omertà.
Trasformare il sospetto in denuncia è
l'unico epitaffio degno.
Soltanto così il silenzio potrà cedere il
passo alla tutela attiva, elevando l'obbligo di segnalazione a pilastro
fondamentale della sicurezza sociale.

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