La cultura dello stupro: dal pregiudizio al femminicidio.

Giulia Cecchettin (2001 - 2023)

 "E' l'ennesima storia che fa, del male, l’unico vero protagonista. Quel male, prerogativa dell'uomo. Triste prerogativa dell'uomo. Prerogativa incomprensibile, se prima, non si è partiti dal bene. E sì, perché si deve partire da un bene profondo. Da un amore intimo. Una passione intensa. Un piacere unico. L'amore irrinunciabile. Al punto che, se qualcuno scappa, con prepotenza lo si rincorre. E con violenza lo si placa..."

Il vissuto delle vittime di femminicidio è testimonianza diretta di violenze manifestate in diverso modo che anticipano e, talvolta, rendono prevedibile o quanto meno altamente preoccupante, un futuro comportamento criminale.

Era il 1961 quando Oriana Fallaci pubblicava Il sesso inutile, ed illustrava la condizione delle donne in diverse culture (prevalentemente mediorientali ed orientali). Psicologicamente e giuridicamente subordinate ad un mondo in cui ogni sostanza apparteneva agli uomini.

Un mondo di uomini deboli, incatenati a una schiavitù che essi stessi alimentano e di cui non sanno liberarsi”.


Una schiavitù, quella di alcune donne, che vede nei numerosi episodi di femminicidio solamente un triste epilogo, anticipati, tuttavia, da una serie di atti e manifestazioni di violenza che sembrano quasi, tacitamente, accettati.

I casi violenza verbale cui le donne sono quasi rassegnate, gli epiteti, gli insulti, le ingiurie, i messaggi oltraggiosi sui social, le frasi volgari: sono tutte instillazioni di una violenza che si insinua nel midollo di una società che ha il dovere debellarla. Tuttavia, persino la violenza progredisce. 

Diventa sempre più impunita ed impunibile. L’anonimato dietro cui si celano i profili fake su Facebook, ad esempio, o su Twitter, non fanno che nutrire un fagocitata fame di violenza.

Sintomo di quella frustrazione che riguarda non solo gli uomini, ma altresì le donne che talvolta riversano le proprie insoddisfazioni nei confronti di altre donne. Ma tralasciando il tema dell’odio misogino generalizzato (già affrontato, peraltro, qui), bisogna concentrarsi su ciò che rappresenta l’evoluzione della natura violenta da parte degli uomini e che vede nelle donne un bersaglio preciso.

Gli episodi di femminicidio sono, appunto, quella punta di un iceberg che vede nello stillicidio di episodi violenti, il chiaro intento di sottomissione della donna al volere dell’uomo e al suo desiderio di controllo.

L’uomo abbandonato dalla propria donna non solo vede minato il proprio ruolo, ma assiste inerme al vacillare di quell’idea di dominio su cui, negli anni, ha costruito le proprie certezze.

La certezza che la donna è a suo uso e consumo. L’abominio per il quale la donna è oggetto del suo desiderio, così come della sua volontà.

Un’ideale marcio e primitivo che, tuttavia, emerge chiaro in molte realtà sociali, non così distanti da casa nostra.

È corretto, delle donne non si deve parlare come di una specie a se stante, ma di fatto, il numero delle donne oggetto di ripetute violenze e che vedono nella loro uccisione quel triste epilogo di cui si diceva sopra, è esasperatamente elevato e non lo si può relegare ad un fenomeno casuale o momentaneo.

Tant’è che lo stesso Consiglio d’Europa in tema di prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne, riconosce la violenza stessa come una violazione dei diritti umani e come atto di discriminazione.

Di tali episodi, occorre, innanzitutto, parlarne: abbassare il livello di attenzione nei confronti degli episodi di violenza, equivale a censurare e contribuisce a considerare le donne in maniera estremamente riduttiva.

Inoltre, relegare la violenza ad episodi connessi alla sola misoginia, in ultima analisi, significa negare il modo in cui alcuni uomini vivono il rapporto con le donne.

Emerge chiara, dunque, una particolare assenza di empatia: ne deriva l’incapacità di immedesimarsi non solo nel sentimento di dolore provato da un soggetto ma soprattutto nell’incapacità di comprendere il male che ad esso, si cagiona.

E i segnali partono da singoli episodi che fungono un po’ da campanello d’allarme: dalle parole allo svilimento fisico e psichico, alle percosse, seppur lievi, sempre e comunque ingiustificabili. Si tende, poi, a giungere ad una riconciliazione anche laddove è ingiustificabile e, soprattutto, emerge un contesto di impunità intrecciato nella spirale della non denuncia.

Occorre intervenire a priori, e cioè, prima che ciò avvenga: innanzitutto, tramite un intervento intellettuale: l’Italia, purtroppo, vive ancora in un clima culturale che tende a stratificare la violenza e, talvolta a sminuirla. Spesso le stesse famiglie coprono gli episodi di violenza subiti.

Ed ecco che subentra un terribile gioco di ricatti, di sensi di colpa, che tendono ancor di più a collocare la figura della donna in un contesto tuttora arretrato e culturalmente, debole.

Un primo passo è stato proprio quello di definire l’omicidio di una donna ad opera dell’uomo, il femminicidio, appunto, quale neologismo dal forte impatto evocativo e culturale.

Non è una questione di semantica: uomo e donna, se vittime di omicidio, hanno ovviamente pari dignità di vittima.


Tuttavia, avendo, il femminicidio, come detto, delle modalità comportamentali che lo anticipano, è opportuno monitorare e prevenire alcuni atteggiamenti dell’uomo che potrebbero sfociare, appunto, nell’uccisione della donna.


È bene ricordare che il 70% degli autori di femminicidio è un soggetto interno alla famiglia stessa o comunque un soggetto legato, affettivamente o sentimentalmente, con la vittima delle violenze.


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