Sport e Violenza: un’inutile caccia alle streghe?

L’attività sportiva esercitata a livello agonistico intende dimostrare allo spettatore - ed è implicita in chi la pratica - che in assenza di regole rigorosamente applicate, non potrebbe esserci un’equa e legale competizione. Il rispetto delle regole, che è la base di ogni ordinato vivere sociale, implica altresì il rispetto del prossimo e, nel caso dello sport – dell’avversario. Il dibattito sulla concezione violenta di alcuni sport è ancora acceso e, in questi giorni, vivo più che mai: Boxe, Rugby, Lotta (Grappling), MMA, Kik Boxing, e molte altre discipline di contatto, sono viste come attività particolarmente violente, proprio perché più di altre espongono alcune parti del corpo ad un rischio maggiore. Va da sé che le attività che prevedono un contatto fisico diretto e votato allo scontro sono spesso considerate violente, aggressive ed eccessivamente impetuose. Di fatto, tutte queste discipline sportive hanno un denominatore comune che poggia le sue basi nella loro intrinseca caratteristica della regola, appunto, la disciplina: esse sono sempre organizzate e regolamentate. Ogni azione è ordinata: oltre ad insegnare ad “attaccare” l’avversario, tende a fornire le basi per prevederne le risposte e le strategie di difesa. Occorre cercare di capire se un’attività sportiva di contatto, attraverso la quale vengono insegnate la sottomissione fisica, l’attacco, e la relativa difesa, possa reputarsi istigatrice di un’attività volta ad accentuare un’indole violenta o, addirittura, possa far maturare un recondito desiderio di violenza. In criminologia, si studiano i comportamenti aggressivi che sfociano in condotte criminali e, prendendo a prestito le teorie della psicologia sociale, si tende a considerarli come comportamenti acquisiti, già in età preadolescenziale. 
L’aggressività acquisita – distante da ogni qual si voglia indole violenta o aggressiva, difficilmente potrà essere imperniata praticando uno sport che insegna, invece, come applicare una vera e propria regola di comportamento. L’indole violenza, tuttavia, è molto probabile sia già insita in chi pratica qualsivoglia sport: chi gioca a baseball ed è violento, potrebbe usare la mazza per colpire in testa qualcuno, al di fuori del campo di gioco; chi tira con l’arco, volendo, potrebbe colpire qualcuno con una freccia durante una lite, e così via. Tendenzialmente, si può affermare che lo sport – persino quelli che prevedono maggior contatto, che puntano alla sottomissione, allo scontro, alla lotta, di per sé con la violenza non hanno nulla a che vedere. Semmai è l’uomo violento a servirsi, talvolta, dello sport, laddove la violenza sia già covata nell’animo dello sportivo stesso. Ergo, non è l’ambente sportivo ad essere di per sé violento e ipoteticamente criminale, ma è la struttura mentale e culturale di chi utilizza la propria disciplina sportiva per imporsi, con violenza, sul prossimo, ad essere deviata. Semmai la violenza va combattuta con l’educazione al rispetto dell’altro e, in questo senso, lo sport può essere sicuramente un importante strumento.
Willy Monteiro Duarte, 21 anni, è l’ultima vittima di morte violenta che la cronaca di un degrado sempre più incalzante ha portato alla luce. Una morte avvenuta attraverso ripetuti calci e pugni che hanno devastato il corpo del ragazzo, cagionando uno shock traumatico e lesioni interne così gravi da cagionarne l’arresto cardiaco. È quella che in letteratura vene definita una morte iniqua, dettata da motivi più che futili, inutili. Significative, poi, le condotte di overkilling: perpetrare la violenza su un corpo già inerme ed indifeso, a sostegno di un’indole particolarmente aggressiva e ingiustificatamente violenta. Per ora solo questo si conosce, l’evento e la causa della morte: una situazione in cui non è indispensabile giungere a maturare una realtà processuale per comprendere la natura violenta di questa inutile e prematura morte. Qui, più che mai, è indispensabile affidarsi ad una giustizia il più possibile retributiva e consapevole. Quanto alla stigmatizzazione che a livello sociale si rivolge alle discipline sportive (e praticate dai presunti autori), non si ravvisa correlazione criminologica tra sport e aggressività innata e predisposizione criminale, nel senso che non è sicuramente lo sport ad instillare violenza e propositi criminali in chi lo pratica. È un’inutile caccia alle streghe che potrebbe pericolosamente stigmatizzare quanti praticano con rispetto e dignità un’attività sportiva e dalla quale, invece, ne apprendono il rispetto delle regole, della disciplina e del prossimo.

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