THE JOKER: paura e rassegnazione



Joaquin Phoenix - The Joker, 2019.

Può un film, dopo poche ore, entrare a far parte dei propri film preferiti di sempre?
Una notte poco serena, Joker, nella mente, con la sua risata nevrotica, acuta, patologica. Un forte senso di vuoto.
Una  risata diversa da quella dei vari Joker cui ero abituato. Non è la risata tipica del compiacimento. Non è la risata di chi trae soddisfazione dal proprio male.
È una risata nervosa, incontrollabile; un istinto irrefrenabile non connesso, necessariamente, ad una propria azione tantomeno ad un accadimento divertente.
Joker, qui, è malato. Schizofrenico, forse. Istrionico, probabilmente. Psicotico, sicuramente: è ovviamente difficile individuare quale possa essere il motore del suo male, anche perché non vi sono dati così precisi per rilevarlo. Almeno dal punto di vista scientifico. E non giova nemmeno farlo, dal punto di vista della narrazione.
Ciò che sicuramente emerge, a mio avviso, è quel senso di indefinito. Di rassegnazione. Di paura.
E a non potersi definire, a farci rassegnare, ad incutere paura è proprio quel (non) senso di una vita che non si sa più verso quale direzione è voltata.
Arthur Fleck è Joker. Un uomo bizzarro, un clown che si arrabatta nel tentativo di far ridere il prossimo ma che, suo malgrado, induce alla risata proprio per la sua incapacità di far ridere. Arthur è la vittima ideale di chi ambisce a bullizzare il prossimo, diverso ed indifeso.  
Perde il lavoro e, con esso, ogni contatto con la realtà, abbandonandosi a quel delirio allucinatorio attraverso il quale trasudano, inquiete, quelle sensazioni disturbanti con le quali deve fare continuamente i conti.
Ride Arthur. Ride quando ha paura. Ride quando è preso in giro. Quando è agitato. Ride sonoramente e in modo incontrollato.
Arthur diventa Joker, quando è in scena. Ma col forte desiderio di far ridere senza l’alibi della maschera. Senza i movimenti goffi del clown. Senza un trucco grottesco.
E ci prova a far ridere con la propria faccia, ci prova ad una serata di cabaret, durante la quale consulta continuamente il proprio notes degli appunti. Con battute obsolete, dal carattere monotono.
Ha un sogno Arthur: far ridere, emulando il suo mito televisivo, Murray Franklin, un famosissimo comico/presentatore tv, dal quale immagina, durante un probabile delirio, di essere intervistato. Tutto è percorso lungo un sottilissimo filo dell’improbabilità che delimita il mondo reale con l’immaginario percepito da Arthur.
I deliri allucinatori sono scanditi dagli unici contatti con la realtà, rappresentata, ormai, dall’esclusivo rapporto con la propria madre, a sua volta, in preda a delirio psicotico e disturbo narcisistico di personalità, e da Sophie Dumond, una ragazza madre che abita nel suo stesso condominio e con la quale, ogni tanto, scambia uno sguardo all’interno dell’ascensore.
Una madre che convince Arthur di essere stata l’amante di Bruce Wayne, il candidato sindaco di Gotham City e al quale attribuisce la paternità del figlio.
E Sophie, una ragazza che non ha mai stretto alcun rapporto con lo stesso Arthur, il quale, tuttavia, fantastica di avere con lei un rapporto speciale, intimo e passionale; al punto da entrare di nascosto nel suo appartamento, sedersi sul divano, spaventando terribilmente la giovane donna.
Ma l’approccio criminologico si ha in risposta all’ennesima umiliazione subita da Arthur, quando, mascherato da Joker, all’interno della metropolitana, viene brutalmente aggredito, dapprima verbalmente, poi fisicamente, quando reagisce all’aggressione sparando ed uccidendo due dei suoi tre aggressori. E raggiunto il terzo uomo, ormai uscito dalla metropolitana, finendolo sulle scale della stazione.
Ed ecco che la morte diventa la risposta al male subito, la giusta retribuzione alle angherie da troppo sopportate.
Seguono equivoci, coincidenze e deliri: i tre uomini uccisi erano dei broker in qualche modo legati al potente Thomas Wayne, e la loro morte viene vista - quasi - come un desiderio di rivalsa di un ceto sociale meno abbiente, nei confronti di quello più elevato. Una manovra riparatrice delle ingiustizie sociali.
Ed ecco che Joker (non più Arthur) diventa una figura emblematica, le cui gesta vengono quasi esaltate da presunti rivoluzionari che ormai manifestano per le strade di Gotham City, con la maschera da clown.
Tuttavia Arthur non esce da questi eventi affrancato, anzi. Manifesta la sua depressione in maniera ancor più incisiva e i deliri allucinatori sono sempre più fitti.
Tenta disperatamente di conoscere Wayne, si reca davanti alla sua immensa villa dove, per breve tempo, dialoga con un piccolo e silenzioso Bruce Wayne  (futuro Batman …), dallo stesso reputato il fratellastro e, dunque, colui che ha potuto godere dell’amore, dell’affetto, della presenza e della ricchezza del padre. A differenza sua.
Intrinseca di metafore, seppur tragicamente reale, The Joker pone lo spettatore di fronte alla dura condizione di chi vive un disturbo mentale ed è oppresso, per tale motivo, da una società vile e prepotente.
Ogni personaggio è vissuto diversamente, dal protagonista, a seconda dello stato mentale cui – di volta in volta – riversa.
Il culmine del disagio psichico sarà espresso dall’idea di suicidarsi in diretta tv, quando, fantomaticamente invitato alla trasmissione del proprio idolo comico - Murray Franklin – si presenta mascherato da Joker e, ammettendo in diretta tv di essere egli stesso il killer dei tre uomini uccisi nella metropolitana, dopo un acceso dibattito, colpisce Murray con un colpo di pistola da prima in testa e, poco dopo, anche nel petto.  Ed ecco la sua danza, a braccia aperte, quasi ad abbracciare la sua stessa follia, con un sorriso nevrotico su di un volto truccato, quasi a conforto delle proprie azioni. Sempre riparatorie.
È un assassino, un personaggio necessariamente immorale e negativo. Un allucinato. Rivelazione di un male, seppur espresso a causa di una patologia. Ma sempre male resta. Così come resta, estremamente convincente, l’abilità di un regista che, probabilmente, vuole tendere ad elevare al rango di eroe una figura estremamente negativa all’interno della società, ma che conquista l’interesse (ed il calore) degli spettatori, di fronte alla natura duplice della narrazione: la follia, di fronte allo scherno, la morte, di fronte al sopruso.
Eccellente l’interpretazione resa da Joaquin Phoenix, di un cattivo diverso da quelli cui eravamo abituati, quasi da compatire. Come se il male, la morte, il dolore, fossero più lievi se compiuti, commessi o inflitti a seguito di terribili violenze ed ingiusti soprusi. E' vero: Joker, a differenza di chi compie male deliberatamente, ha un alibi pronto a giustificare la sua totale assenza di coscienza. Che, tuttavia, non ne giustifica gli orrori.

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