JEFFREY LIONEL DAHMER: IL CANNIBALE DI MILWAUKEE

Noto con l’appellativo di Cannibale (o Mostro) di Milwaukee, Jeffrey Lionel Dahmer è stato un serial killer statunitense cui sono stati attribuiti diciassette omicidi commessi tra i suoi 18 e 31 anni di età e, precisamente tra il 1978 e il 1991.


A rendere particolarmente spaventosa la vicenda, oltre al dato numerico relativo alle vittime, sono i metodi utilizzati dallo stesso per uccidere e, soprattutto, per l’attitudine comportamentale del killer successiva agli eventi: morti feroci e violente accompagnate da smembramenti dei corpi delle vittime e dai relativi occultamenti, da atti di violenza necrofila, squartamenti e, soprattutto, da atti di cannibalismo.

Dedito all’uso ed abuso di alcool già in età preadolescenziale, si è dimostrato attratto alla morte sotto ogni suo aspetto: da quella degli animali (dei quali recuperava i corpi per seppellirli od utilizzarli per spaventare amici od estranei) a quella delle persone (verso le quali alimentava fantasie sessuali necrofile).

Analizzando il comportamento di Dahmer è facile intuire che si tratta di un serial killer organizzato, i cui delitti vengono commessi con una modalità prefigurata dall’autore, le cui vittime corrispondono ad un canone idealizzato ben definito nella mente del killer stesso.

Le vittime, poi, sono tutte di sesso maschile, per lo più omosessuali e di nazionalità afroamericana od asiatica (l’elemento della diversa nazionalità potrebbe far includere Dahmer anche nel novero dei killer orientati al controllo della vittima).

I ragazzi, spesso giovanissimi, venivano abbordati in club gay o direttamente per strada, condotti presso la propria abitazione con la scusa di passare la serata in compagnia, bevendo o guardando film pornografici, e sistematicamente dopo aver operato violenze ed abusi sessuali li uccideva tutti allo stesso modo: dopo averli narcotizzati con sostanze psicotrope, venivano  uccisi tramite strangolamento o, in alternativa, attraverso ripetute pugnalate; talvolta subivano atti di necrofilia ed infine squartati e sezionati tramite una sega elettrica.

Tutta l’attività del killer veniva documentato dallo stesso Dahmer che fotografava ogni singola operazione[1].

Catturato nel luglio del 1991, grazie alla fuga di un ragazzo che sarebbe stato sicuramente la sua futura vittima, viene condotto nel carcere di Milwaukee, processato e successivamente condannato alla pena dell’ergastolo per l’uccisione delle sue vittime, nonostante l’infermità mentale invocata più volte dalla difesa.

Dopo due anni dal suo arresto, morì il 3 luglio 1994 a seguito dell’aggressione subita in carcere ad opera di un altro detenuto.

Rilevante, per comprendere meglio l’identità e la natura aggressiva e significativamente violenta di Dahmer, fu l’intervista rilasciata dallo stesso ad un giornalista televisivo americano.

Oggetto di attenta analisi da parte di criminologi, psicologi e psichiatri forensi, essa testimonia come il Mostro di Milwaukee, Jeffrey Lionel Dahmer, sia stato un soggetto a tratti lucidamente determinato nel condurre a termine i propri intenti criminali, e di come, agli occhi della Corte Americana, la sua condotta sia apparsa da sola l’essenza idonea e sufficiente a giustificarne una condanna al carcere a vita, a scapito delle cure eventualmente riferibili a chi, quasi certamente, era affetto da un disordine psicologico ed un disagio emotivo oltre ogni limite.

Dunque, per la classificazione tra i modelli di serial killer finora osservati,  Jeffrey Lionel Dahmer appare certamente come un lussurioso, un cosiddetto Lust Murder, secondo quanto definito, come detto, da Mastronardi e Palermo nel 1995.
Egli, infatti, presenta i connotati tipici del killer sessuale, che uccide per il proprio esclusivo compiacimento sessuale, il cui soddisfacimento è direttamente proporzionale alla natura e al numero di torture cui vengono sottoposte le vittime e i loro corpi[2].


Sul tema già trattato del serial killer, leggi qui
Sulla fenomenologia dei crimini violenti, leggi qui

[1] I corpi amputati venivano conservati in freezer come cibo, o talvolta disciolti nell'acido, altre volte conservate in contenitori con della formaldeide. Le teste venivano cucinate per rimuoverne la carne: il teschio, in purezza, veniva dipinto e conservato.
[2] In questo aspetto sta proprio la fase totemica del Serial Killer: per evitare la certa fase depressiva conseguente alla commissione di un omicidio, e al fine di prolungare il suo successo, l’assassino arriva a conservare alcune parti del corpo della vittima. In tal senso, JOEL NORRIS, Serial Killers,  Doubleday Books, 1989.

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